Non solo profitto

Non solo profitto

Negli Stati Uniti, i missionari usano la finanza per incalzare le multinazionali. In Italia siamo all’inizio, con qualche eccezione

In America si chiama faith investing e affonda le radici al tempo della guerra del Vietnam. Furono le Chiese americane, in quell’occasione, a dare impulso ai primi fondi etici, quando a un certo punto scoprirono con orrore di investire in aziende che producevano il famigerato “gas arancione”, il defoliante irrorato dall’alto dall’aeronautica americana per scovare i Viet Cong. Decisero allora di commissionare a un centro studi un’analisi delle imprese dal punto di vista etico, in modo da poter orientare in modo responsabile i propri investimenti.

Collegare l’utilizzo del denaro a valori etici e religiosi oggi è una sensibilità diffusa, che in Nord America si è manifestata, fra l’altro, nella crescita molto rapida dei fondi strutturati in base a criteri religiosi. E che in Europa è tradotta in pratica dagli istituti religiosi e missionari a diversi livelli. Negli Stati Uniti l’Interfaith Center on Corporate Responsibility (Iccr) è un network di ben 275 organizzazioni religiose che non solo investono secondo criteri etici, ma cercano anche di influenzare i comportamenti delle imprese acquistando delle azioni in modo da avere il diritto di parola all’assemblea dei soci. Il network, nato grazie alla dinamicità di alcune congregazioni femminili cattoliche, oggi comprende membri di altre confessioni cristiane e anche di altre religioni. E fa tremare con le proprie richieste gli amministratori delegati delle multinazionali. «In Nord America c’è molto pragmatismo – afferma Marc Dessureault, canadese e tesoriere a Roma degli oblati di Maria Immacolata -. In Europa di fronte agli investimenti gli istituti religiosi e missionari sono un po’ più conservatori, ma a poco a poco questo atteggiamento sta cambiando: si accorgono che c’è un modo di investire che può sostenere la loro missione e la vita dei propri membri e nello stesso tempo avere un impatto positivo sulla società o sull’ambiente».

«La mia impressione è che fino a una quindicina di anni fa in Italia ci fosse un’attenzione più marcata del mondo religioso e missionario nei confronti della finanza etica» afferma suor Alessandra Smerilli, salesiana ed economista, che insegna in diverse Università italiane ed è nel comitato scientifico di Banca Popolare Etica. «Spesso c’è chiarezza a livello di principi ma si fa fatica a tradurli in pratica. Del resto quando si ha a che fare con le banche ci si imbatte in un mondo intricato e complicato e non sempre si riesce ad ottenere chiarezza sui prodotti nei quali si va a investire».

In Italia si avverte anche un ritardo culturale: mentre il mercato dei fondi etici è esploso in questi anni in Francia e Germania, da noi tarda ad affermarsi. Questo vale anche per le Chiese e gli istituti religiosi: in Germania i missionari verbiti hanno addirittura fondato una banca etica, la Stayler Bank, che ha ormai superato i cinquant’anni di vita. In Italia l’impressione è che la maggior parte degli istituti missionari sia solo all’inizio di un percorso che, come dice suor Smerilli, cerca di tradurre in pratica i buoni principi.

«I missionari hanno dato un contributo inziale importante alla nascita del movimento della finanza etica in Italia – afferma Ugo Biggeri, presidente di Banca Etica -. Negli anni 80 ricordo il coinvolgimento molto forte in particolare dei missionari saveriani e di comboniani nella campagna “Contro i mercanti di morte” poi continuata nella “Campagna di pressione alle banche armate”. Nel chiedere al nostro governo trasparenza sul commercio delle armi si scoprì un po’ inconsapevolmente che c’era bisogno del supporto di istituti finanziari e si decise di rendere pubblica la lista di quelli coinvolti nella vendita a Paesi terzi di materiale bellico da parte di aziende nazionali. Proprio in seguito a questa campagna persone e organizzazioni del terzo settore sentirono la necessità di fondare Banca Etica, che aprì nel ’99. Quello che già allora in parte mancò fu il coinvolgimento diretto, anche economico, nella costituzione della banca. Anche oggi mi sembra che alcuni istituti siano attivi nelle campagne a livello ideale ma che poi gli economati facciano fatica a tradurle in pratica».

Secondo Marc Dessureault, proprio perché è difficile entrare nel merito dei singoli prodotti finanziari a causa della loro complessità, è fondamentale avvalersi di organizzazioni che svolgono queste analisi in modo professionale. L’esperienza degli oblati di Maria Immacolata (Omi) è fra le più avanzate del mondo missionario in Italia, grazie soprattutto all’impegno e alla visione di padre Marc, che ha conseguito un Master in Business Administration (Mba) presso l’Università di Ottawa in Canada e da anni lavora in campo amministrativo e finanziario.

«Abbiamo cominciato a riflettere sull’eticità dei nostri investimenti vent’anni fa – racconta padre Dessureault – ma ci siamo accorti ben presto che i filtri disponibili per individuare prodotti finanziari in base ai nostri valori non erano modellabili in modo preciso. Abbiamo chiesto a un’agenzia di rating etico, Sustainalytics, di svilupparci un filtro etico su misura, a partire dai nostri criteri. Funziona come una sorta di semaforo: ogni tre mesi inviamo il filtro aggiornato ai nostri gestori, che lo applicano ai prodotti finanziari. Se c’è la luce verde possono procedere con l’investimento, se è rossa devono fermarsi, se è gialla devono consultarci prima di prendere una decisione». Padre Marc spiega che il filtro etico è stato il primo di quattro passi compiuti in questi anni verso una gestione più etica degli investimenti. Il secondo passo è stato quello, molto “americano”, di acquistare titoli di imprese con aspetti problematici legati all’ambiente o ai diritti umani in modo da avere il diritto di andare all’assemblea annuale dei soci e fare una domanda formale sul problema identificato. «In questi anni siamo riusciti in diverse occasioni a far sentire la nostra voce e, in alcuni casi, ad ottenere dei risultati. Per esempio con Enel in Guatemala: un vescovo ci aveva interpellato per un problema ambientale legato a una centrale idroelettrica e, siccome possedevamo le azioni, abbiamo potuto dare a quel vescovo il diritto di rappresentare il nostro fondo all’assemblea dei soci. Ha potuto così sollevare le sue questioni e abbiamo poi saputo che fra l’azienda e la comunità locale si è aperto un dialogo».

Il terzo passo compiuto dagli oblati è stato dedicare l’1% del proprio fondo totale al sociale: «Sappiamo in partenza che il rendimento di questi investimenti non è quello sperato, ma che c’è un ritorno positivo di altro tipo. Per esempio negli ultimi cinque anni abbiamo investito nel microcredito nei Paesi dove i nostri missionari sono presenti» spiega padre Marc. Tre anni fa è arrivato il quarto passo: «Abbiamo dato priorità all’impact investing, ovvero agli investimenti in imprese che consentono di sperare in un buon rendimento ma che nello stesso tempo contribuiscono alla crescita sociale. In America Latina e in India per esempio investiamo in servizi medici o nelle scuole, in attività imprenditoriali che però hanno anche un impatto sociale o ambientale positivo».

«Spesso si è considerata la gestione dei soldi di secondaria importanza rispetto agli “ideali” – afferma suor Alessandra Smerilli -. Invece in modo graduale gli istituti religiosi e missionari si stanno accorgendo che questo aspetto che può sembrare più pratico può diventare coessenziale alla realizzazione della loro missione. A ridestare l’attenzione è stata anche la “Laudato Si’” di Papa Francesco, che sta continuando a dare spunto di riflessione su modelli alternativi di economia». MM