L’invasione delle locuste

L’invasione delle locuste

Tra Africa e Asia, gli sciami devastano i raccolti minacciando milioni di persone. Una piaga scatenatasi da una rara congiuntura climatica che, con il riscaldamento globale, potrebbe diventare più frequente

 

C’è una minaccia che vaga indisturbata tra l’Africa, il Medio Orien­te e l’Asia. Più letale del Coronavirus, ha già toccato una ventina di Paesi e, dal Kenya alla Penisola arabica fino a Iran, Pakistan e India, sta mettendo a rischio la sopravvivenza di almeno 25 milioni di persone.

Il suo nome è schistocerca gregaria, comunemente nota come locusta del deserto. Un animaletto che, se da solo è innocuo, nel momento in cui si unisce a uno sciame si trasforma in un incubo foriero di devastazione e carestia: centinaia di milioni di locuste che percorrono fino a 150 chilometri al giorno divorando tutto ciò che incontrano. Per farsi un’idea, basti pensare che un piccolo sciame, sull’area di un chilometro quadrato, consuma quotidianamente la stessa quantità di cibo di una città di 35 mila abitanti. Significa che uno delle dimensioni di Roma mangerebbe quanto l’intera popolazione del Kenya.

Una piaga biblica, letteralmente. Che tuttavia, sebbene vecchia di millenni, rappresenta oggi un rischio nuovo, da affrontare con urgenza. Un rischio «senza precedenti per sistemi di sussistenza basati sull’agricoltura e per la sicurezza alimentare in una regione già fragile», denunciava la Fao, l’agenzia Onu per l’alimentazione e l’agricoltura, in un appello ad aprile, mettendo in guardia sulla «grave insicurezza alimentare acuta in Etiopia, Kenya, Somalia, Sud Sudan, Uganda e Tanzania».

In Etiopia le cavallette hanno già distrutto 350 mila tonnellate di cereali, quasi 200 mila ettari di terreni coltivati e oltre 1,3 milioni di ettari di pascoli, mentre il Kenya sta vivendo la peggiore invasione da 70 anni, con i pastori che vedono spazzare via la vegetazione di cui si nutre il loro bestiame. Intanto, in queste settimane, sciami famelici si sono abbattuti sui raccolti in Pakistan e sono arrivati a oscurare, in nuvole inquietanti, i cieli di Jaipur, in India. Dal Rajasthan fino al Madhya Pradesh, gli agricoltori trasmettono musica ad alto volume per spaventare gli insetti e salvare almeno le colture estive come riso, mais e sorgo.
Un’ emergenza grave, in una regione già messa in ginocchio dalla pandemia di Covid-19.

Ma come si è arrivati a questa situazione? «Tutto è iniziato nel 2018, quando due cicloni, a distanza di pochi mesi, si abbatterono su aree remote del Sud della Penisola arabica, creando un habitat insolitamente favorevole per le locuste», spiega Keith Cres­sman, funzionario senior del Servizio prevenzione locuste della Fao. «La combinazione straordinaria tra piogge eccezionali e inaccessibilità della zona, che impedì alle squadre di esperti nazionali di verificare la presenza di nuovi stormi, fece sì che nel giro di nove mesi le locuste aumentarono di ottocento volte, per poi iniziare a migrare verso il Mar Rosso e il Golfo di Aden fino al Corno d’Africa».

Ma le coincidenze sfavorevoli non erano ancora finite. «Nel corso del 2019 piogge del tutto inusuali hanno colpito proprio la regione di Somalia ed Eritrea, flagellate di solito da siccità prolungate anche per anni». Paradossalmente, l’abbondanza inaspettata di acqua, che ha spinto i contadini africani a seminare massicciamente, si è trasformata in un boomerang, visto che i germogli sono diventati nuove provviste per continuare a ingrassare gli sciami. I quali, ormai fuori controllo, nei mesi scorsi hanno attraversato indisturbati le frontiere e invaso regioni sempre più grandi, spostandosi non solo in Africa ma anche in Medio Oriente e Asia occidentale. La tradizionale difficoltà a tracciare queste migrazioni, dovuta anche all’instabilità politica di molte aree coinvolte, è oggi accresciuta dall’emergenza Coro­na­virus, a causa dei blocchi messi in atto dai singoli Stati per tenere sotto controllo la diffusione della pandemia.

Solo un’incredibile serie di sfortunate coincidenze, dunque? Non è proprio così. L’elevata frequenza di forti precipitazioni in zone che di solito ne sono prive ha a che fare con il fenomeno noto come “dipolo dell’Oceano Indiano”: un gradiente di temperatura tra i diversi strati dell’acqua che può essere positivo, neutro o negativo e determina il clima di un’area vastissima, dall’Africa orientale all’India fino all’Australia. Se l’acqua del mare è più calda, il dipolo tende verso la positività, il che provoca piogge violente nella zona di Golfo Persico e Corno d’Africa e siccità nella regione australe: proprio ciò che è successo l’anno scorso, quando l’abbondanza di precipitazioni che ha favorito la proliferazione delle cavallette è andata di pari passo con la carenza d’acqua e i devastanti incendi in Australia.

È evidente, dunque, il rischio associato al riscaldamento globale. Secondo uno studio del climatologo australiano Wenju Cai dell’agenzia governativa di ricerca scientifica Csiro, un aumento di temperatura di 1,5°C sarebbe sufficiente a raddoppiare la frequenza di dipoli positivi nell’oceano .

Un fenomeno in realtà già in atto, come ha avvertito il segretario generale delle Nazioni Unite: «C’è un legame tra il cambiamento climatico e la crisi senza precedenti dell’invasione delle locuste che affligge l’Africa orientale», ha affermato António Guterres. «Mari più caldi significano più cicloni che generano il terreno fertile ideale per le locuste. La situazione peggiora di giorno in giorno».

Di fronte a questo scenario, la prevenzione diventa fondamentale. «Nell’ambito del sistema di allerta globale gestito dalla Fao ci avvaliamo delle tecnologie più avanzate, tra cui il satellite, per monitorare eventuali aree verdi nel deserto in cui le locuste potrebbero riprodursi», spiega ancora Keith Cressman. «È importante tracciare precocemente i nuovi nuclei di diffusione e permettere agli operatori sul posto di comunicare tempestivamente le informazioni raccolte in zone spesso remote alle rispettive capitali, per poi intervenire subito con i pesticidi».

Per far fronte a quella che è considerata la più distruttiva peste migratoria al mondo, varie nazioni tra loro confinanti hanno avviato piani di azione comuni, superando in molti casi anche tensioni politiche e conflitti armati: è successo tra India e Pakistan (costretto recentemente a dichiarare l’emergenza nazionale), così come tra Arabia Saudita e Yemen.

Ma se su aree ridotte è possibile intervenire spruzzando manualmente pesticidi a livello del suolo, i grossi sciami possono essere affrontati solo con gli aerei e con attrezzature specifiche che non tutti i Paesi possono permettersi. Per questo la Banca Mondiale ha già stanziato 500 milioni di dollari in aiuti e i programmi di intervento realizzati dalla Fao hanno portato alcuni importanti risultati: circa 720 mila tonnellate di cereali, sufficienti per alimentare cinque milioni di persone, sono state salvate in dieci Paesi (Gibuti, Eritrea, Etiopia, Kenya, Somalia, Sud Sudan, Sudan, Uganda, Tanzania e Yemen), mentre si è impedita la diffusione delle locuste a molti più ettari, con 350 mila famiglie pastorali risparmiate dalla calamità.

Per il futuro, tuttavia, è possibile immaginare strategie di azione alternative ai pesticidi, più efficaci e meno inquinanti? Oltre a «utilizzare sempre meglio le tecnologie in funzione preventiva», Cressman cita i biopesticidi: «Sono un’ottima soluzione, in particolare se bisogna trattare aree con la presenza di animali, come mandrie o api, ma sono difficili da produrre – si tratta infatti di un fungo – e non rappresentano un business vantaggioso, perché la richiesta sul mercato non è costante. Non a caso c’è solo un’azienda al mondo che li fornisce».

Un’idea innovativa e particolarmente interessante arriva da una ricerca condotta in Senegal dagli scienziati dell’Università statale dell’Arizona. Lo studio dimostra che gli agricoltori che coltivano il proprio miglio in modo sostenibile, utilizzando nutrienti del suolo sani, producono un raccolto relativamente basso in carboidrati, che le locuste non apprezzano. Nuovi esperimenti sul campo legati a modalità di coltivazione biologiche (come quello raccontato alle pagg. 16-18), potrebbero quindi aiutarci a prevenire future, sempre più frequenti, invasioni devastanti di sciami affamati. E, visto che le locuste possono vivere nel 20% delle terre emerse, cioè in ben 60 Paesi al mondo, sarebbe una bella notizia per tutti.