Il Covid in Perù uccide l’indio più forte di guerriglia, multinazionali e polizia

Il Covid in Perù uccide l’indio più forte di guerriglia, multinazionali e polizia

Il popolo awajun piange il suo leader Santiago Manuin Valera, sopravvissuto nel 2009 a otto pallottole per difendere il suo popolo, ma ora vittima del Coronavirus a 63 anni. Una storia emblematica di quanto la pandemia stia mettendo ulteriormente in ginocchio l’Amazzonia

 

Dopo mesi continuiamo a fermarci ai numeri. Dopo mesi non abbiamo ancora capito che non bastano le statistiche a misurare la devastazione prodotta in tanti angoli del mondo dal Coronavirus. Per questo è essenziale a raccontare le storie, come quella che si è consumata in queste ore tra gli awajun, uno dei popoli dell’Amazzonia peruviana. Nella regione dell’Alto Marañón – nel nordest del Perù, al confine con l’Ecuador – è morto l’altra notte a 63 anni per le conseguenze del Covid-19 Santiago Manuin Valera, leader carismatico di questo popolo indigeno di circa 8mila persone che da decenni lotta contro nemici dai volti tra loro anche diversi per la propria sopravvivenza.

Basta ripercorrere la storia personale di Santiago Manuin per capirlo. Nato nel 1957 era giunto in Europa grazie a una borsa di studio del governo basco in favore dei leader indigeni: a Bilbao aveva conseguito una laurea in studi sui diritti umani, approfondita poi con un master a Ginevra. Per poi tornare in Perù a fianco del suo popolo awajun a mettere in pratica quei principi. E la prima sua grande battaglia all’inizio degli anni Novanta era stata contro il Movimento Rivoluzionario Tupac Amaru, la guerriglia di matrice marxista che in nome della rivoluzione penetrava in quegli anni nelle aree indigene. Gli awajun avevano visto che cosa era successo agli altri popoli indigeni finiti nelle mani di Sendero Luminoso, l’altro movimento comunista presente sulle montagne del Perù: avevano visto quanto in fretta i loro diritti erano stati sacrificati sull’altare delle ideologie. E – al contrario – come invece fosse stata aperta la porta agli affari con i narcos, per il finanziamento della guerriglia. Così Santiago Manuin aveva guidato la lotta degli awajun contro i Tupac Amaru e lo sradicamento delle coltivazioni della coca e del papavero.

Lo sbocco di quella battaglia era stata nel 1999 l’affermazione di un altro modello di sviluppo: la fondazione – sostenuta dai gesuiti e dal Vicariato di Jaen, la Chiesa cattolicalcattolica – del Saipe, Servicio Agropecuario para la Investigación y Promoción Económica. Un organismo di sviluppo agricolo promosso con le comunità indigene anziché contro di loro. Un impegno per il quale Santiago Manuin era diventato subito l’anima. Ma in agguato c’era un altro nemico molto pericoloso per il popolo awajun, una minaccia altrettanto rapace: quella dei nuovi interessi economici sull’Amazzonia a cui il Trattato del libero commercio tra il Perù e gli Stati Uniti – firmato da George W. Bush e dal presidente peruviano di matrice neoliberista Alan Garcia – apriva le porte. Un testo inaccettabile per le popolazioni indigene che si trovavano di fronte a un’apertura indiscriminata agli «investimenti stranieri» sulle terre dove abitavano da sempre.

La tensione sfociò in massicce proteste delle popolazioni indigene all’inizio del 2009. Movimenti che culminarono il 5 giugno nei durissimi scontri del cosiddetto Baguazo, la battaglia della Curva del Diablo, nella località di Bagua. La repressione della polizia di una protesta di 2.500 persone si trasformò in un bagno di sangue con decine di vittime da entrambe le parti. Gli indios sostengono che fu la polizia a sparare per prima, le forze dell’ordine dissero di essere state «attaccate». In quel giorno nero Santiago Manuin – che come sempre cercava di mediare tra le parti – fu colpito da otto pallottole, rimanendo vivo per miracolo anche se con lesioni irreversibili che lo costrinsero su una sedia a rotelle. Questo non gli risparmiò però l’accusa di aver istigato la rivolta, accusa per la quale finì a processo. L’eco internazionale del Baguazo fu però tale che il parlamento peruviano emendò le parti più controverse del Trattato con gli Stati Uniti. E lo stesso Santiago Manuin alla fine fu assolto dalle accuse.

Quando nel gennaio 2018 papa Francesco a Puerto Maldonado incontrò i rappresentanti dei popoli indigeni in quello che fu il prologo del Sinodo per l’Amazzonia il leader awajun era in prima fila. Vedeva finalmente la sua Chiesa comprendere fino in fondo non solo la sua battaglia, ma anche la sua fede. «Questa visita è stata un bene grande per il nostro popolo – raccontò quel giorno Santiago Manuin all’agenzia Sir -, perché ha riaffermato la nostra fede cristiana. Come popoli amazzonici da sempre amiamo la natura, l’uomo e il cielo, siamo in continua relazione e integrati con la natura. In questo ambiente abbiamo incontrato il Verbo ancora prima di conoscerlo. Prima ancora che arrivassero i missionari o altre persone, noi già cercavamo Dio attraverso la natura e comunicavamo con Lui».

Alla fine però è arrivato il Covid-19 a portarlo via, in quella che non è affatto una fatalità: anche nella sua morte Santiago Manuin è diventato un simbolo dell’abbandono in cui le popolazioni indigene dell’Amazzonia sono lasciate nella lotta contro il virus. Perché la verità oggi è che questa malattia rischia di dare il colpo di grazia a un «corpo» che ideologie, affari e inquinamento hanno già ampiamente indebolito. Come ha raccontato la figlia Santiago Manuin ha manifestato i primi sintomi del Covid-19 il 17 giugno, ma ci sono voluti i passaggi in ben tre ospedali prima di poter avere una diagnosi e una cura vera. Quando ormai probabilmente era troppo tardi. Oggi ci sono 43 mila persone di etnia awajun, quechua e wampis che rischiano di morire nell’Amazzonia peruviana – denuncia Sekut Manuin -. E l’eventualità che gli interessi minerari che il Baguazo fermò nel 2009 si prendano la rivincita grazie al Coronavirus non è affatto un’idea campata per aria.