La Libia di chi non si arrende

La Libia di chi non si arrende

La fotografa che cerca bellezza tra le macerie e l’uomo che riscatta i nuovi schiavi: l’inviato di “Avvenire” a Tripoli racconta un’umanità viva. Un segno della Pasqua là dove regna il dolore

 

“La bellezza salverà il mondo”, chissà se salverà anche la Libia. Ci prova l’anonima fotografa di Tripoli che ogni giorno mette in rete almeno un paio di scatti dalla Città Vecchia. E ci prova anche il proprietario terriero che acquista schiavi nei campi di prigionia per migranti. Li compra come fanno altri mercanti di uomini. Ma lui lo fa per liberarli segretamente.

La Libia non è solo gli “orrori indicibili” denunciati dalle Nazioni Unite e che da anni documentiamo. C’è ancora umanità in un Paese che a causa del conflitto vede oltre 300 mila libici in fuga dalle proprie case e un numero imprecisato di migranti. Imprecisato, perché ufficialmente si tratta anche di 700 mila stranieri residenti fin dai tempi di Gheddafi, che erano lì per lavorare. Tra loro non solo subsahariani o yementiti, ma anche molti asiatici, soprattutto filippini, ul­ti­ma presenza significativa di cristiani che non vogliono andarsene.

Anche dentro a un conflitto sopravvive sempre una qualche forma di bellezza. Testimoniata non da un minareto rimasto in piedi o dalle vestigia ancora ben conservate di un anfiteatro romano sulla spiaggia tra Tripoli e la Tunisia. No, la bellezza è negli occhi di chi vuole continuare a vederla. Una resistenza vera, partigiana, di chi non si arrende al male.
Così, tra un coprifuoco e l’altro, la giovane fotografa percorre i vicoli dimenticati della Tripoli d’un tempo. Scorci che fanno sembrare il conflitto come un estraneo. Immagini di quiete, tra anziani che chiacchierano fumando una pipa e donne che rincasano per far da mangiare.

Basta questo per incoraggiare chi osserva le sue immagini. Per restituire speranza a chi la sta perdendo. I cortili con un albero di limoni ancora verdi. Le vecchie porte di legno verniciate di fresco. Anche qui come a mostrare che dentro a quella casa, dietro le persiane chiuse, ci abita qualcuno che non ha voluto cedere al decadimento. Tracce di un’umanità che non finisce nelle cronache di guerra. Ma che meglio d’ogni altro proclama può raccontare l’inossidabile voglia di guardare al domani con altri occhi. Rievocando i fasti di un tempo andato, suscitando la malinconia di chi quella Tripoli l’aveva conosciuta e abitata. Come a dire che è da lì, non dalle torri dei pozzi petroliferi, che bisogna ricominciare. Per chi la Libia la conosce e la frequenta, questi sprazzi non sono cosmesi per nascondere ciò che racconta la polvere dei quartieri di periferia. Il bello, e il bene, non occultano le domande sul lato oscuro. E per comprendere l’altra storia di resistenza umana – quella degli schiavi comperati e liberati – bisogna porsi gli interrogativi necessari per capire l’inferno a poche bracciate dalle nostre coste.

Com’è possibile movimentare ogni giorno migliaia di persone, percorrere impossibili rotte desertiche, attraversare confini polverosi, raccogliere e trasferire denaro, fornire carburante alle centinaia di mezzi di trasporto, ottenere i lasciapassare, governare i centri di raccolta dei migranti e poi gestire la flotta per il viaggio via mare – per molti l’ultima tappa in ogni senso – senza dare nell’occhio? «Una filiera del genere non può passare inosservata. E non può prosperare senza il consenso e spesso la complicità di chi oggi afferma di voler porre fine al traffico di migranti». L’investigatore Onu che parla sotto anonimato si fa precedere da un rapporto di 299 pagine inviato al Consiglio di sicurezza nelle scorse settimane. Un dossier che le cancellerie conoscono bene, Italia compresa.

Nel faldone ci sono nomi che scottano. Come quello di Fathi al-Far, comandante della brigata al-Nasr, alleato forte del premier Serraj, riconosciuto dalla comunità internazionale. L’ex colonnello dell’esercito di Gheddafi «ha aperto un centro di detenzione a Zawiyah», sulla costa occidentale a metà strada tra Tripoli e Zuara. Il gruppo di investigatori «ha ricevuto informazioni secondo cui il centro di detenzione è usato per “vendere” i migranti ai contrabbandieri» sotto gli occhi dei fedelissimi di Serraj. Non è un caso che sempre a Zawiyah, il capo della Libyan Petroleum Facilities Guard, milizia che dovrebbe proteggere i siti di estrazione dell’oro nero, sia «coinvolto nell’approvvigionamento di carburante per i trafficanti». È Mohamed Koshlaf che fattura milioni di dollari stipando migranti da rivendere agli scafisti. Suo fratello, Walid Koshlaf, si occupa degli aspetti finanziari.

Nei loro affari i fratelli Koshlaf possono contare su Abd al-Rahman Milad meglio noto come Bija, non un personaggio qualunque, ma il capo della Guardia costiera di Zawiyah. Si tratta di uno degli uomini che con le sue motovedette dovrebbe occuparsi del contrasto al traffico di migranti e che in questi giorni ha ricevuto l’ordine di tenere alla larga le ong dalle acque libiche. Per la verità gli alleati di Serraj talvolta sono sì entrati in conflitto con i trafficanti di esseri umani. Non però per bloccarne il business e proteggere i migranti. Nel 2016 e nel 2017 si sono ripetuti violenti scontri a Zawiyah: «Secondo diverse fonti gruppi concorrenti catturano regolarmente i migranti per sottrarli ai loro rivali, spesso provocandone la morte o lesioni gravi». Più difficile invece investigare nelle zone sotto l’influenza dello scaltro generale Haftar, che ha chiuso ermeticamente le province orientali. Ma anche sui suoi uomini ci sono molti sospetti, corroborati da decine di foto satellitari.

Basta questo per farsi un’idea di che cosa si nasconda dietro la rotta dei migranti, diventati essi stessi un’arma non convenzionale. Per le milizie sono una merce di scambio politicamente rilevante e un’arma di ricatto nei confronti dei governi europei. Basta mettere in mare un po’ di barconi perché l’Europa dei “porti chiusi” si spaventi e sia disposta a finanziare la cosiddetta Guardia costiera libica, oppure a sostenere “programmi di sviluppo” gestiti direttamente dalle milizie libiche.

Opporsi a questo sistema è un rischio che nessuno in Libia si prenderebbe. Tranne lui, l’uomo senza nome che più volte i migranti giunti in Italia hanno indicato come il proprio salvatore.

E pensare che all’inizio credevano esattamente il contrario. Ogni settimana nei pressi dei campi di prigionia si svolge, neanche troppo di nascosto, la vendita degli schiavi. Si tratta dei ragazzi più forti, quelli che per mesi hanno subito torture, abusi, vessazioni eppure restano ancora in piedi. Ragazzi buoni per estorcere dinari attraverso le famiglie nei Paesi d’origine e i conoscenti emigrati in Europa che pagano il riscatto affidando il denaro ai money transfer. Non di rado accade che non si trovi nessuno disposto a pagare, o che il malcapitato non abbia più parenti disponibili a inviare denaro ai “mediatori”. Perciò finiscono venduti ai mercanti di schiavi.

«L’uomo che mi ha comprato – ha raccontato un ventenne subsahariano alla squadra mobile di Agrigento – mi ha portato nella sua fattoria. Pensavo che lì sarebbe continuata la mia disgrazia. Invece lui mi ha curato, ha guarito le ferite delle torture. E ogni tanto mi faceva lavorare nei suoi campi». Niente soldi in cambio, ma un telefonino, buon cibo tre volte al giorno, la doccia. «In quei tre mesi sono stato bene. Mi trattava bene, non mi insultava, non mi rimproverava». Non era da solo il ragazzo lì, non lontano da Zawiyah; con lui c’erano altri tre “schiavi” comprati nella prigione governativa gestita dallo stesso Bija con i suoi complici.

Finché una sera «quell’uomo, il padrone, ci prese e ci portò sulla spiaggia. C’era un gommone con altri come noi in partenza per Lampedusa». Loro, gli “schiavi”, capirono: «Aveva pagato per noi per farci scappare dalla Libia adesso che stavamo bene». Per non dare nell’occhio evitò di abbracciarli. A bassa voce, però, disse loro: «Figli miei, per voi non c’è futuro qui. Dovete andare».

Tra loro alcuni erano cristiani. Mai come quella sera, però, avvertirono importante la parola pronunciata da quell’uomo musulmano mentre salivano sul gommone. Bellezza e umanità si alleavano per non cedere al male e per seminare quel bene che non si esaurisce nella traversata notturna del Mediterraneo e nelle mani forti di chi ti issa a bordo di una nave umanitaria. Per gli schiavi liberati, per il loro salvatore, per la fotografa di Tripoli, per la Libia intera, per tutti loro vale la speranza e l’invocazione alla volontà dell’Onnipotente, ascoltata nell’abbraccio mancato sulla spiaggia di Zawiyah: «Inshallah».