Indonesia, modello a rischio?

Indonesia, modello a rischio?

Il fondamentalismo islamico minaccia un sistema nato per tenere unita la pluralità dello Stato-arcipelago, flagellato anche dalle emergenze ambientali. Ma per padre Nicelli «il Paese resta un esempio per l’area»

 

Bhinneka tunggal ika, “Molti ma uno”: il motto nazionale indonesiano è emblematico di una vocazione che per questo vasto Paese del Sud-Est asiatico, composto da 17.508 isole e da una moltitudine di popoli, è anche una sfida quotidiana. Fu il primo presidente Sukarno, dopo l’indipendenza dagli olandesi nel 1945, a istituire il peculiare modello di convivenza su cui è costruito lo Stato, la pancasila: una formula che oggi appare a rischio, indebolita dai separatismi e dall’avanzata di un islam fondamentalista – nel più grande Paese a maggioranza musulmana al mondo – che approfitta dell’instabilità, economica, politica o legata alle crescenti emergenze ambientali causate dai cambiamenti climatici, per portare avanti la propria agenda.

Lo ha dimostrato per l’ennesima volta, lo scorso marzo, l’attentato suicida contro la cattedrale cattolica di Makassar, nel Sulawesi meridionale, che ha causato il ferimento di una ventina di fedeli riuniti per celebrare la Domenica delle Palme. «Si tratta di segnali inquietanti, eppure, ogni volta che capitano episodi di questo tipo, non manca la reazione delle diverse comunità, che riconfermano la volontà di non rinunciare a quello spirito di convivenza che fa ancora oggi dell’Indonesia un modello per l’area»: resta fiducioso padre Paolo Nicelli, missionario del Pime per nove anni nelle Filippine, islamologo e grande conoscitore del Sud-Est asiatico.

Che cos’è la pancasila?

«È uno dei principi fondamentali che costituiscono la Repubblica indonesiana, un insieme di gruppi etnici storicamente uniti sotto un’unica esperienza definita dall’islam in quanto religione e cultura, ma anche da influssi forti buddhisti e induisti, con una presenza di fedi locali animiste. Il cristianesimo fu portato dai missionari a metà del 1500 e oggi rappresenta il credo del 10% della popolazione. In questa realtà plurale, in cui spesso la religione si identifica con il gruppo etnico e tribale, il grande leader socialista Sukarno adottò il pensiero filosofico della pancasila, letteralmente i “cinque principi” dell’unificazione nazionale, per la redazione della Costituzione del ’45. Questi cinque pilastri sono la fede nell’uno divino che sta all’origine di tutto; un’umanità giusta e civilizzata che trova un’armonia tra gli opposti; l’unità indonesiana; la democrazia guidata da una deliberazione saggia all’interno del consiglio dei rappresentanti del popolo e la giustizia sociale».

Questo sistema riuscì a creare la tanto desiderata “unità nella diversità”?

«Se da una parte Sukarno interpretò una diffusa volontà di valorizzare le varie identità senza che esse costituissero un fattore di divisione, anche recuperando l’antica pratica giavanese dell’aiuto reciproco e del buon vicinato, dall’altra appiattì tali identità sul modello di un’unica “sovrareligione” e sulle ragioni della giustizia sociale, in un’ottica di promozione collettivista dell’unità nazionale. Un’impostazione che provocò forte reazione in ambito islamico, creando uno stato di tensione sociale che spianò la strada all’avvento del dittatore Suharto, il quale dalla fine degli anni Sessanta svolse un ruolo di contenimento dell’espansione comunista di matrice maoista nell’area. Suharto reinterpretò i cinque pilastri secondo un nazionalismo volto a frenare le aspirazioni all’autonomia di alcune regioni. Si rinfocolarono così le tendenze separatiste di zone come la provincia di Papua, che ancora oggi causano gravi tensioni, o di Aceh, spesso fuse con le rivendicazioni islamiche. Così, a cominciare dagli anni Novanta si sono sviluppati gruppi estremisti focalizzati sul riconoscimento dell’islam come fulcro religioso e culturale del Paese, sul modello originario dei sultanati».

Sono i gruppi che, ad esempio, nel 2017 fomentarono le accuse di blasfemia contro l’ex governatore cristiano di Giacarta Basuki Tjahaja Purnama. Come questa ideologia è scivolata nel terrorismo?

«Ci sono state alcune fasi. La prima ha coinciso con la costituzione di una formazione jihadista proveniente dalla Malaysia, quella Jemaah Islamiyah responsabile del gravissimo attentato di Bali del 2002, che provocò oltre duecento vittime e inferse un duro colpo a una società che vive di turismo. Un movimento iscritto nel jihadismo della prima ora nel Sud-Est asiatico, come Abu Sayyaf nelle Filippine, caratterizzato da un’agenda regionale e dall’opposizione alle politiche governative viste come ostacolo al ritorno dell’islam alla purezza delle origini. È stato poi l’arrivo di al Qaeda a creare connessioni e alleanze tra i diversi movimenti antigovernativi nelle Filippine, in Malaysia e in Indonesia, con i leader locali trasformatisi in quadri dell’organizzazione transnazionale».

E poi è arrivato l’Isis.

«Il sedicente Stato islamico è riuscito a riscuotere favore anche nel Sud-Est asiatico proprio perché prometteva la prospettiva di uno spazio territoriale. E così, come si riconoscono nel califfato le formazioni fondamentaliste responsabili, nelle Filippine, della crisi di Marawui del 2017 e dell’attentato alla cattedrale di Jolo due anni dopo, all’Isis è affiliato anche il gruppo indonesiano Jamaah Ansharut Daulah (JAD), già dietro agli attentati del maggio 2018 contro tre chiese nell’isola di Giava che causarono 13 vittime, e che ora ha rivendicato l’attacco suicida alla cattedrale di Makassar».

C’è il rischio di una diffusione più capillare del fondamentalismo militante?

«Non posso negare la preoc­cupazione. Ma in Indonesia esistono anche realtà musulmane impegnate attivamente per il dialogo e la convivenza, come ad esempio il movimento sufi della Muhammadiya, che promuove la conoscenza delle diverse tradizioni religiose all’interno delle università. A questa galassia è legato un intellettuale di primo piano come Azyumardi Azra, a cui si deve una rilettura della pancasila in termini più democratici, come racconto nel libro “Islam plurale” (edito da Guida nel 2016). Non si tratta di voci isolate e la loro importanza è tanto più evidente nella misura in cui operano nelle istituzioni educative: in un Paese la cui popolazione è molto giovane è fondamentale un intervento formativo che contrasti la visione fondamentalista violenta. A fianco di queste esperienze interne al mondo islamico, il cui impegno contro la radicalizzazione è condiviso dal presidente Joko Widodo, esiste un insieme di realtà cristiane, sia in ambito protestante sia cattolico, che non solo incentivano la distensione tra le religioni, comprese quelle animiste, ma anche la valorizzazione del patrimonio ancestrale tradizionale».

Come vivono i cristiani in Indonesia?

«Si tratta di una minoranza consistente, libera di praticare la propria fede, sebbene i periodici episodi di intolleranza creino preoccupazione. La comunità cristiana, sia a Sumatra sia a Giava, è impegnata nella promozione di uno spirito di fraternità. E non mancano segni di speranza sorprendenti: nella zona di Sumatra, proprio quella dove è più forte la spinta al recupero dell’islam delle origini, in un contesto molto rurale, esistono diocesi in cui le nuove vocazioni sono numerose e i vescovi chiedono la presenza di clero anche straniero che possa rispondere all’esigenza di formazione nei seminari e nelle scuole teologiche».

Un’altra sfida con cui l’Indonesia si trova periodicamente a misurarsi è quella ambientale: gli episodi di disastri naturali legati ai cambiamenti climatici, come le gravi inondazioni e le frane provocate dal passaggio del ciclone Seroja a inizio aprile, sono una minaccia costante…

«La questione ecologica rap­presenta uno dei fattori determinanti per il prossimo futuro del Paese: l’innalzamento delle acque, con la conseguente riduzione territoriale delle isole, è un’emergenza su cui le ong attive per la preservazione dell’ambiente non smettono di richiamare l’attenzione. Ci sono zone che stanno letteralmente sparendo sotto l’acqua, e spesso si tratta di aree turistiche, il che connette questo problema all’altro fattore di preoccupazione nazionale, e cioè appunto la crisi del settore delle vacanze, che ristagna pesantemente in conseguenza degli attentati terroristici. Un duro colpo all’economia indonesiana, già provata da una politica commerciale aggressiva da parte di Pechino nell’intera area. In questa situazione complicata, proprio nel malcontento della gente trova terreno fertile il fondamentalismo. Tuttavia, riscontro una coscienza forte e reattiva da parte delle comunità indonesiane, che non mancano di isolare gli episodi di violenza. Io non sono dell’idea che gli attentati dimostrino che il Paese è debole: al contrario forse si cerca di attaccare il suo modello proprio perché minaccia l’agenda di chi nell’area contrasta la libertà di espressione e di fede, pilastri del sistema indonesiano. Un sistema esportabile e propositivo per l’intero Sud-Est asiatico».