Panama un Paese offshore

Panama un Paese offshore

Da porto delle navi dirette in Europa con l’oro degli incas, a patria dell’evasione fiscale mondiale: alla scoperta del piccolo Paese centroamericano che ospita la Giornata mondiale della gioventù

In lingua indigena Panama vuol dire sia “abbondanza di pesci e farfalle”, sia “aldilà”; praticamente un nome che è un destino, se si considera che questo Paese di fatto genera profitti per molte nazioni che si trovano estremamente lontane dai suoi confini.

Da sempre Panama si trova al centro di movimenti internazionali di beni e capitali: da quando è iniziato il saccheggio americano, da qui salpavano le navi dirette in Europa cariche dell’oro degli incas, depredati in Perù. Anche la sua posizione geografica parla chiaro: una cerniera tra Nord e Sud, un collegamento tra Est e Ovest. Fino a 20 anni fa era sotto il pieno controllo degli Stati Uniti, che ne hanno deciso e imposto l’indipendenza dalla Colombia a inizio ‘900, nell’ottica di realizzare il canale e di poterlo controllare. Le due economie sono così connesse che ancora oggi la moneta locale panamense è legata al dollaro americano, accettato ovunque.

«È infatti qui che è nata l’economia offshore. Uno spazio virtuale, ma saldamente ancorato ai confini nazionali dello Stato ospitante, nel quale registrare imprese e persone fisiche che vogliono evadere le tasse nei rispettivi Paesi o spostare capitali di dubbia provenienza. Anche la marina mercantile è stata rivoluzionata dalla possibilità di registrare le navi sotto bandiera panamense, soluzione che ha permesso agli armatori di sottrarsi alle imposte dei Paesi di origine», spiega Alfredo Somoza, presidente di Icei (Istituto cooperazione economica internazionale). «Negli Anni 80 del secolo scorso il quartiere degli affari di Panama City è diventato “narcocity”: a Panama entravano i soldi sporchi della droga che subito dopo uscivano ripuliti, bianchissimi, pronti per essere investiti nell’acquisto di terre, nell’edilizia, nei servizi».

Oggi il nome di questo Paese evoca immediatamente l’inchiesta internazionale pubblicata nel 2016 dall’Icij, il Consorzio internazionale di giornalisti investigativi, battezzata Panama Papers. Basata sui famosi documenti trafugati dallo studio legale Mossack Fonseca, l’inchiesta non ha certo svelato un sistema nuovo, ma ha rivelato nomi e cognomi di politici e vip, con importanti investimenti economici in questo paradiso fiscale, e soprattutto ha svelato gli interessi di 214 mila società offshore di mezzo mondo. Nonostante gli annunci di tutte le grandi istituzioni internazionali, però, nemmeno l’inchiesta Panama Papers è riuscita a cambiare le cose: «Il modello Panama si è rivelato vincente e ancora nessuno ha provato seriamente a smontarlo. Ecco perché questo Paese illustra perfettamente le contraddizioni, le connivenze pericolose, i doppi giochi e le doppie morali che, dal XV secolo in poi, hanno caratterizzato  i rapporti economici globali», conclude Somoza.

A conferma che ancora oggi Panama riveste una funzione chiave, sia per il suo ruolo economico che per la sua posizione strategica, c’è la crescente attenzione che le riserva Pechino, che ha imposto la sua influenza tanto da riuscire a far chiudere le relazioni diplomatiche con Taiwan (nel giugno 2017), e, da allora, a stringere una serie di strettissimi rapporti commerciali, confermati dalla visita del presidente Xi Jinping a Panama City lo scorso dicembre. Le mire espansionistiche della Cina sono chiare e trasparenti, basti pensare ai suoi interessi in Africa: il 50% degli investimenti cinesi sono diretti proprio nelle casse degli Stati africani. Per Pechino, Panama è la via più veloce e facile per arrivare in Nigeria, Ghana, Sudafrica.

Negli ultimi anni Panama ha registrato una crescita economica senza precedenti, sopra il 6% (come confermava la Banca Mondiale nel 2017), tanto da essere considerato il Paese con migliori prospettive economiche dei Caraibi.

In base ai dati diffusi con entusiasmo dal governo panamense, nel 2017 il livello di povertà sarebbe sceso dal 25 al 20% in pochi anni. Purtroppo, ad uno sguardo approfondito questi dati non trovano vero riscontro nella realtà, perché i nuovi programmi sociali stanno sì permettendo a 150 mila persone di sbarcare il lunario, ma non di uscire dall’indigenza: le hanno soprattutto rese dipendenti dai sussidi governativi; le politiche attuate finora non hanno intaccato le ragioni strutturali della povertà.

Per porre realmente fine a questa situazione sarebbero necessari giustizia fiscale, aumento dell’occupazione con salari dignitosi e promozione dell’industria e dell’agricoltura. Tre elementi, questi, che richiederebbero all’oligarchia al potere di cambiare profondamente le basi su cui poggia l’economia offshore.

In base ai dati della Banca Mondiale, Panama è anche il quinto Paese con più disuguaglianze della regione, subito dopo Honduras, Colombia, Brasile e Guatemala. Anche il governo ha dovuto ammettere di essere in difficoltà a elaborare politiche in grado di sanare questa condizione di disparità, ma ne ha addossato la responsabilità alla crescita diseguale di alcuni settori dell’economia rispetto ad altri, un fattore che influenzerebbe anche il livello di disoccupazione. La popolazione povera vive in minima parte nelle periferie delle città, e si concentra quasi completamente nelle aree rurali. È indigente la metà dei cittadini nelle zone abitate soprattutto da panamensi (54%) e la quasi totalità di quelli che abitano nelle aree rurali a maggioranza indigena (98%). Le sette comunità indigene che abitano il Paese rappresentano il 12,7% della popolazione panamense totale, cioè circa mezzo milione di persone.

Alle comunità indigene il governo ormai riconosce la “comarca indigena”, cioè la sovranità amministrativa e giudiziaria sui propri territori. Questo però non è bastato a migliorare le condizioni di vita degli indios: mancano i servizi, a partire dai più fondamentali, quasi sempre i villaggi non hanno accesso all’acqua potabile e le condizioni igieniche sono estremamente precarie.

C’è poi il grave problema della malnutrizione infantile: ne soffre il 19% dei bambini indios sotto i 5 anni. In alcune regioni, come quella di Ngäbe Buglé, questa percentuale raggiunge il 30%; arriva al 55% nella regione di Guna Yala.

Di fronte alla Fao e alle autorità indigene, il governo di Panama si è impegnato, ormai un anno fa, a implementare le politiche di assistenza alla popolazione indigena, a sostenere l’agricoltura e le altre attività di sussistenza tradizionale, anche nell’ottica di preservarne le diete tipiche. L’applicazione del piano contro la fame sta però procedendo a rilento: in ottobre un primo progetto pilota ha iniziato a sostenere 5 mila bambini sotto i 3 anni nella regione di Ñurum. Prevede il coinvolgimento delle strutture scolastiche, il sostegno agli orti famigliari e incontri di formazione per i genitori. I risultati, a distanza di pochi mesi, sono già evidenti, ma resta urgente l’applicazione di progetti come questo su larga scala.

È quindi nei confronti della popolazione di origine indigena che la disuguaglianza è più evidente, e di certo non è un caso che, a pochi mesi dall’apertura del Sinodo sull’Amazzonia, la Giornata mondiale della gioventù si tenga in questo Paese. Nell’immediata vigilia della Gmg, a Panama si incontrano infatti anche i giovani delle etnie indigene di tutta l’America Latina.

L’incontro anticipa le tematiche del Sinodo, dalla mancanza di sacerdoti in Amazzonia, alle minacce ambientali, fino alle violenze contro gli indios legate ai conflitti per la terra. Tra i temi dell’agenda di questo incontro spicca quello educativo, considerato fondamentale per le comunità indigene, per la loro dignitosa sopravvivenza, per il loro avvenire.

Al termine di questo incontro della gioventù indigena, che si terrà nel comune di Soloy, a 150 chilometri circa da Panama, i partecipanti si trasferiranno nella capitale per partecipare alla Gmg; Papa Francesco arriverà il 23 gennaio, il giorno dopo presiederà invece la cerimonia di accoglienza e apertura nel Campo Santa Maria la Antigua.