La Torah nel Golfo

La Torah nel Golfo

Nella normalizzazione dei rapporti tra Emirati Arabi e Israele ieri è arrivato l’annuncio dell’apertura delle ambasciate. Ma questo processo sta alzando il velo anche sulla piccola comunità ebraica della monarchia islamica. Per la quale oggi si aprono nuove opportunità, finora inimmaginabili

 

Lo scorso ottobre, in occasione della festa ebraica dei Tabernacoli, una tradizionale capanna sukkah è comparsa nel cuore di Dubai, di fronte all’iconico Burj Khalifa, il grattacielo più alto al mondo. Pochi giorni prima, al piano terra dello stesso edificio, era stato aperto il primo ristorante kosher degli Emirati Arabi, mentre il popolare quotidiano Al Khaleej Times aveva pubblicato un inserto speciale per spiegare ai suoi lettori simboli e consuetudini della ricorrenza di Rosh Hashanah.

Per la piccola e semisconosciuta comunità ebraica del vitale Paese del Golfo, gli ultimi mesi hanno portato una vera rivoluzione. «Dopo anni in cui abbiamo vissuto nell’ombra, tessendo relazioni cordiali con le autorità ma sempre sottotraccia, ora siamo usciti allo scoperto: è un momento straordinario». Ross Kriel è entusiasta. Arrivato a Dubai dal Sudafrica con la sua famiglia nel 2013, è stato instancabile nel cercare e mettere in contatto tra loro i cittadini ebrei che vivevano negli Emirati, così da costruire dal nulla una comunità, che oggi guida in qualità di presidente del Jewish Council of the Emirates (JCE, Consiglio ebraico degli Emirati), riconosciuto dal governo.

La svolta più macroscopica, per queste famiglie – ancora solo qualche centinaio di persone – è arrivata lo scorso 15 settembre con la firma, durante una cerimonia alla Casa Bianca, dei cosiddetti “Accordi di Abramo” in cui i rappresentanti di Abu Dhabi, insieme a quelli del vicino Bahrain, normalizzavano i rapporti dei propri Paesi con Israele. E ieri è arrivato un nuovo passo importante con l’annuncio ufficiale dell’apertura delle due ambasciate: quella degli Emirati a Tel Aviv e quella di Israele ad Abu Dhabi. La discussa operazione di riavvicinamento, per i critici una mossa pragmatica che sorvola sulla questione mai risolta di una pace giusta con i palestinesi, ha un indubbio valore simbolico, sdoganando la legittimità di una presenza ebraica in mezzo al mondo arabo e islamico. E, a queste latitudini, ha aperto la strada non solo a infinite opportunità di business, ma anche a un nuovo capitolo nella costruzione di quella “società della tolleranza” su cui le autorità emiratine stanno scommettendo.

Soltanto un anno prima, la storica visita di Papa Francesco ad Abu Dhabi aveva rappresentato un altro passo inedito nel disegno di apertura delineato dal principe ereditario Mohammed bin Zayed Al Nahyan, tanto sordo alle istanze dei diritti umani e della libertà di espressione quanto deciso nel voler difendere dalla minaccia fondamentalista un modello di convivenza basato sul pluralismo – il 90% degli abitanti qui è immigrato e nel Paese si contano 200 nazionalità diverse – che tanta prosperità ha garantito alla Federazione dei sette Emirati fondata nel 1971 dall’amatissimo padre della patria shaykh Zayed.

La visita del Pontefice, con la firma del documento sulla Fratellanza umana insieme al grande imam di Al Azhar, ha segnato una tappa importante nel cammino di mutuo riconoscimento tra le fedi, non solo cristianesimo e islam. Basti pensare che alla Conferenza interreligiosa tenutasi per l’occasione partecipò anche un rabbino e che la prima eredità concreta di quell’evento sarà la costruzione ad Abu Dhabi, entro l’anno prossimo, della “Casa di Abramo”, un complesso che ospiterà fianco a fianco una moschea, una chiesa e una sinagoga.

Anni luce di distanza da quando – e non sono passati nemmeno due decenni – le filiali locali delle università occidentali accettavano di bandire dai propri corsi i testi di autori ebrei, i centri di ricerca diffondevano studi revisionisti sulla Shoah e i giornali pubblicavano vignette e corsivi zeppi di stereotipi antisemiti. Non sorprende che, da queste parti, a nessuno passasse per la mente di presentarsi in pubblico con una kippah in testa o di appendere sulla porta di casa il tradizionale rotolo della mezuzah.

Per secoli, in realtà, la presenza ebraica qui è stata praticamente nulla. Ma un tempo lontano non era così. Durante il suo lungo viaggio in Medio Oriente tra il 1165 e il 1173, il mercante e rabbino navarrese Beniamino di Tudela annotò di avere incontrato una comunità di fedeli in una località situata nell’odierna Ras Al Khaimah, uno dei sette Emirati. Ed esattamente in quella zona, a Shams, il dipartimento delle antichità ha recentemente rivelato il ritrovamento di una lapide tombale ebraica, risalente al periodo tra il 1507 e il 1650, quando la vicina isola di Hormuz, oggi iraniana, ospitava una vivace comunità giudaica. Proprio dall’Iran o dall’Iraq provenivano quasi tutti i fedeli ancora presenti in Kuwait e Bahrain all’inizio del Ventesimo secolo.

Ma una storia che sembrava chiusa per sempre era invece destinata ad avere un sorprendente secondo atto. Una decina d’anni fa, alcune famiglie ebree giunte a Dubai per ragioni professionali fecero i primi tentativi di rintracciare i correligionari “sotterranei” per incontrarsi informalmente. Tra questi pionieri c’erano Derek e Bianca Hirschowitz, arrivati da Johan­nesburg nel 2008, l’uomo d’affari statunitense Eli Epstein, gli inglesi Sharon e Simon Eder (i genitori di lei originari di Libia e Iraq, quelli di lui ashkenaziti), Ranna e Giacomo Arazi: moglie figlia di iraniani, marito italiano di mamma libanese e papà siriano.

Perfettamente in linea con il melting pot emiratino e le radici meticce così usuali nel mondo ebraico, le prime cene di Shabbat organizzate a turno nelle case private erano un mix di lingue e tradizioni, sia sefardite che ashkenazite. «All’inizio eravamo un po’ tesi perché non eravamo certi che tutti si sentissero a proprio agio. Non c’era cibo kosher disponibile, quindi cucinavamo il nostro pane challah e preparavamo pasti vegetariani e a base di latticini», ha raccontato Bianca Hirschowitz. «Presto, tuttavia, la voce si sparse tra gli amici degli amici e rabbini dall’estero iniziarono a contattarci chiedendoci assistenza spirituale per i fedeli ebrei in procinto di venire a Dubai».

La comunità cominciava a prendere forma. Si pregava nelle case e, grazie ai rabbini in visita, si celebravano feste e riti. Nel 2012 si tenne la prima cerimonia di circoncisione, per il nuovo nato degli Eder, Jonah. In quel periodo la famiglia Kriel arrivò negli Emirati. Fu Ross, avvocato costituzionalista ed ebreo praticante, a fondare la prima sinagoga di Dubai. Uno spazio in un edificio della zona residenziale di Umm Suqeim chiamato “la villa”, che all’esterno non aveva alcun segno di riconoscimento e il cui indirizzo era noto solo allo stretto circolo dei fedeli. «In principio non fu facile. Anche se le autorità si dimostrarono aperte nei nostri confronti, non potevamo essere certi del favore dei cittadini locali», racconta Kriel. Ma la comunità si organizzò.

La sinagoga Marble Arch di Londra donò il primo rotolo della Torah, rav Yehuda Sarna, basato a New York, garantì la sua assistenza spirituale con viaggi abbastanza frequenti e nella “villa”, a fianco dell’area per la preghiera, nacquero una cucina kosher e uno spazio per attività socio-ricreative. Dal Belgio arrivò il cantore Alex Peterfreund e nel 2015, da Brooklyn, giunse il giovanissimo Levi Duchman (seguace del movimento chassidico Chabad-Lubavitch), che divenne il primo rabbino residente a Dubai.  Presto rav Duchman aprì una scuola Talmud Torah, e se il primo anno gli allievi furono solo quattro, oggi la frequentano in quaranta. Nel frattempo il religioso si è dedicato anche ai fedeli residenti ad Abu Dhabi, dove lo scorso Rosh Hashanah si è tenuta la prima preghiera collettiva, mentre a Dubai ha fondato una seconda sinagoga, dove si prega in gruppo tre volte al giorno.

La presenza ebraica tra i grattacieli degli Emirati ha cominciato, con discrezione, a essere più visibile anche ai cittadini autoctoni. L’attività di catering kosher messa in piedi un paio d’anni fa dalla moglie di Ross, Elli, per i correligionari residenti o in visita si è guadagnata il favore della stampa locale e oggi sono centinaia gli emiratini che ordinano regolarmente la sua zuppa di gnocchi matzah della tradizione ashkenazita o i suoi fagottini borek alle melanzane.
Poi, negli ultimi mesi, tutto è accelerato. E se la normalizzazione dei rapporti con Israele ha colto il mondo di sorpresa, gli imprenditori si sono fatti trovare pronti a sfruttare le nuove opportunità. Molte, a giudicare dagli accordi bilaterali già firmati in settori tra cui energia, turismo, voli diretti, investimenti, sicurezza, comunicazione e tecnologia.

«Ma non si tratta solo di affari», commenta Kriel. Nelle scorse settimane, mentre gli Emirati aprivano le porte agli ultimi ebrei del martoriato Yemen – un centinaio di persone -, a Dubai arrivava un nuovo rabbino residente: Elie Abadie, noto studioso sefardita di origini libanesi, che ha lasciato la sua sinagoga di Manhattan per venire ad assistere il piccolo gregge che sta fiorendo nel Golfo.

«Quello che sta accadendo qui, dove noi abbiamo riscoperto la nostra fede affrontando circostanze complicate, va oltre la politica e la diplomazia per influenzare nel profondo il modo in cui ci guardiamo a vicenda. Ci obbliga, come leader religiosi e semplici osservanti ebrei, cristiani e musulmani, a esaminare le nostre tradizioni, Scritture e storie per cercare, nella teoria e nella pratica, le basi per il rispetto reciproco e la percezione della nostra comune umanità, nella sua fragilità ma anche nel suo potenziale».