Cambiare il mondo con un pallone

Cambiare il mondo con un pallone

I progetti di volontariato internazionale sportivo inventati dal Csi hanno già portato in missione 300 giovani, dimostrando che allenamenti e partite di calcio sono eccezionali strumenti di sviluppo

 

Metti un pallone in una bidonville di Haiti, o in un villaggio remoto in mezzo alla foresta camerunese. Qualcosa di eccezionale succederà. A garantirlo, per esperienza, sono i volontari del Csi, il Centro sportivo italiano, che hanno scommesso sulle potenzialità educative e di sviluppo che allenamenti e spirito di squadra potevano riservare in contesti di missione. E hanno stravinto.

«Si tratta di un mio vecchio pallino», confessa Massimo Achini, presidente della sezione milanese (dopo otto anni alla direzione nazionale) del Csi, realtà ispirata ai valori del Vangelo che da 75 anni promuove lo sport come momento di educazione, impegno e aggregazione sociale. «Già vent’anni fa avevo fatto una missione esplorativa in Camerun, ma i tempi maturarono solo nel 2011, quando da Haiti, reduce da un rovinoso terremoto, ci giunse la richiesta di mandare alcuni animatori per organizzare attività sportive per i bambini.

Accettammo, e fu un successo assoluto: capimmo subito che lo sport, portato nelle periferie del mondo, poteva sviluppare cento volte tanto le sue potenzialità educative». Iniziò così l’avventura di Csi per il mondo, un progetto che in questi anni ha portato circa trecento giovani italiani – allenatori, atleti, appassionati – non solo ad Haiti ma in Congo, Kenya, Camerun, Albania e Bosnia, Cile e Brasile, dove nell’estate delle Olimpiadi i ragazzi hanno animato le favelas con le loro attività di squadra.

«Noi andiamo dove esistono realtà missionarie strutturate, che ci permettono di entrare in relazione con contesti anche molto difficili: quartieri disagiati, slum – ad Haiti grazie ai missionari scalabriniani operiamo in zone in mano alle bande armate -, persino il carcere, come avviene in Camerun», spiega Achini, che – a proposito – è anche allenatore della squadra di calcio dell’Istituto penale minorile Beccaria di Milano.

«Lo sport è un passaporto diplomatico mondiale», sorride il presidente. «Non ci crede? Una volta, insieme all’Università Cattolica, avevamo organizzato una spedizione in Iraq, a Erbil. Giunti a un check point a Mosul, ci mettemmo in fila ad aspettare. Tante personalità dotate di permessi diplomatici furono rimandate indietro, noi, “quelli dello sport”, fummo lasciati passare».

Ma quali attività vengono organizzate, concretamente, durante le missioni di Csi per il mondo? «Quotidianamente si fa animazione sportiva tradizionale: allenamenti, partite di calcio o pallavolo, a volte, semplicemente, grandi giochi collettivi». Anche perché l’aspetto organizzativo è complicato, vista la partecipazione massiccia alle proposte. «In Africa, quando andiamo nei villaggi in foresta, l’attività è praticamente ingovernabile, visto che ogni giorno arrivano ottocento bambini, e gli animatori sono una decina! Ad Haiti, ogni anno torniamo nel quartiere di Camp Corail, a Port-au-Prince, dove accogliamo dalla mattina alla sera circa cinquecento ragazzini… e alcuni purtroppo restano fuori». Poi ci sono le attività straordinarie, come quando in collaborazione con il governo haitiano il Csi organizza la giornata dello sport, radunando allo stadio tremila bimbi di tutte le periferie.

Potrebbero sembrare iniziative estemporanee, momenti di evasione per poi tornare, inesorabilmente, alla propria quotidianità fatta di miseria e mancanza di opportunità. Al contrario. «I missionari ci dicono: “Quando arrivate voi i nostri progetti registrano un’accelerazione, perché create relazioni e trasmettete entusiasmo”», racconta Achini. «La presenza dei giovani animatori, motivati e preparati anche grazie a un cammino specifico nei mesi precedenti la partenza, è senz’altro un punto di forza, ma è anche il carattere educativo dello sport in sé a incidere tantissimo in questi contesti svantaggiati».

Non a caso, il progetto di Csi per il mondo non si ferma alle tre settimane di campo estivo: «Noi organizziamo anche missioni per formare allenatori, educatori e dirigenti locali, con l’obiettivo di aprire nei diversi Paesi realtà sul modello del Csi». In Camerun si è ormai consolidata un’associazione molto attiva, esistono poi “filiali” a Port-au-Prince e a Sarajevo, mentre altre saranno formalizzate presto.

Quando si tratta di missione, tuttavia, a coglierne i frutti è sempre anche chi parte. In questo caso, ragazzi spesso giovanissimi, provenienti dall’ambiente degli oratori ma non solo, impegnati di solito come allenatori, arbitri o comunque con una passione sportiva. «Parliamo di giovani che per un’esperienza classica di missione magari non sarebbero mai partiti, ma per i quali lo sport è una modalità di impegno allettante», spiega ancora il presidente del Csi lombardo. Che racconta esperienze di grande motivazione: «Penso a un ragazzo che si è fatto regalare il biglietto d’aereo per il viaggio in occasione dei suoi 18 anni, o a una 17enne che, dopo una lunga malattia, l’anno scorso ha finito la chemioterapia e ha detto: “Voglio partire per restituire quel sorriso che la vita mi è tornata a dare”».

La proposta del Csi ha un’identità cristiana, ma è aperta a tutti: «Durante il campo estivo i ragazzi vivono momenti di formazione missionaria, con anche la celebrazione della Messa, ma per diverse ragioni può capitare che qualcuno scelga di non parteciparvi. Quest’anno, per esempio, tra gli animatori ci sarà anche una ragazza musulmana, che proporrà degli approfondimenti spirituali secondo la sua fede».

Ciò che è certo è che la formula funziona, visto che i campi «sono sempre in overbooking»: ogni anno partono tra i trenta e i cinquanta giovani. Tra questi “missionari dello sport”, otto anni fa, c’era anche Valentina Piazza, che rimase folgorata dall’esperienza e oggi ne è diventata la coordinatrice.

«Io partii un po’ per caso», racconta. «Il Csi, con cui collaboravo, aveva organizzato un viaggio ad Haiti. All’ultimo momento, una persona dovette tirarsi indietro e io accettai di sostituirla… così, senza preparazione, senza vaccinazioni…in modo un po’ incosciente!». Lo shock arrivò appena messo piede fuori dall’aereo: «Eravamo atterrati da pochi minuti e già aleggiava questo odore di morte… C’era stato da poco il terremoto, la devastazione era ovunque, imperversava il colera. Se avessi potuto, avrei fatto subito dietrofront per tornare a casa. E invece, due settimane dopo, mi ritrovai a piangere perché non volevo ripartire!».

Che cosa era successo? «Nonos­tante la situazione così precaria, avevo sentito la voglia di vivere e l’energia della gente, la gioia nelle piccole cose. Lo so, sembrano luoghi comuni, certe cose bisogna provarle per capirle, ma posso dire che per me è stata una “botta” che mi ha cambiato la vita, da tutti i punti di vista».

Così, l’anno dopo Valentina partì di nuovo, e poi ancora, fino a diventare coordinatrice del progetto. Oggi è arrivata a quota – più o meno – cinquanta viaggi: quelli estivi, in cui accompagna i giovani animatori, e quelli di formazione degli operatori locali. «Lo sport abbatte tutto: le differenze, la lingua, il colore della pelle, le difficoltà della vita di tutti i giorni», afferma. «Nei Paesi di missione ho incontrato allenatori che per offrire una proposta educativa ai ragazzini si alzano alle tre del mattino e attraversano la città con i mezzi pubblici. E parlo di contesti in cui la priorità non è certo il pallone ma sopravvivere, letteralmente. Lo sport diventa uno degli strumenti per poter migliorare un po’ la propria vita, una motivazione ad agire anche in condizioni drammatiche». Una lezione che i giovani volontari si portano a casa. «La reazione più frequente dei ragazzi, al ritorno, è: “Mi sono reso conto che, in realtà, non ho aiutato ma ho ricevuto”», racconta Valentina. «Ed è vero. Non a caso quasi tutti, l’anno dopo, decidono di partire di nuovo».

Ecco perché il Csi sta pensando di potenziare la proposta di volontariato internazionale, anche per venire incontro alle tantissime richieste di intervento che continua a ricevere da missionari un po’ dappertutto: «Ci hanno contattati da Colombia, Ecuador, Perù, Sudan, Nigeria… il mio sogno sarebbe la Siria», racconta ancora Massimo Achini. «Ora vorremmo strutturarci come soggetto di cooperazione internazionale, per venire incontro adeguatamente alle nuove esigenze».

La benedizione – letteralmente – è arrivata anche dal Papa. «Già nel 2014, incontrandoci in occasione del settantesimo del Csi, alla domanda su che cosa volesse da noi, Francesco ci rispose: “Fate una bella attività nelle parrocchie e portate un pallone nelle periferie del mondo”». Poche settimane fa, nel 75esimo di fondazione, una nuova udienza. E ancora un pensiero speciale a «quanti fra voi si dedicano ai progetti di volontariato sportivo internazionale, che rappresentano un segno prezioso per il nostro tempo».