Se la missione diventa social

Se la missione diventa social

L’avanzata dei nuovi media tocca oggi anche i contesti più periferici e pone nuove sfide all’evangelizzazione. I missionari del Pime provano a rispondere. Le loro esperienze in Asia, Africa e Papua Nuova Guinea

 

Nel Nord della Thailandia, nei villaggi del distretto di Mae Suay abitati dalle tribù dei monti, ogni sera all’imbrunire si ripete una scena singolare: «File di persone, giovani ma anche anziani, cellulare alla mano, si incamminano per raggiungere le cime più vicine dove arriva la connessione internet, per potersi mettere in comunicazione con i parenti emigrati all’estero a lavorare».

Da quando è arrivato in Thailandia, nel 2004, padre Marco Ribolini è stato testimone di numerosi cambiamenti che hanno attraversato la società locale e la vita della gente in mezzo a cui opera, in quella provincia di Chiang Rai che include il cosiddetto Triangolo d’Oro dove il Mekong, incontrando il suo affluente Ruak, segna la linea di frontiera con il Myanmar e il Laos. Anche quassù, l’avvento del web e dei social media sta rivoluzionando tanti aspetti della quotidianità e dunque, di riflesso, della missione, che per sua natura condivide le sfide dei popoli che la accolgono.

La pandemia di Coronavirus, in questo senso, ha rappresentato forse la svolta decisiva, ampliando forzatamente le distanze e spingendo singoli e collettività a trovare nuove modalità di vicinanza “virtuale”, nel lavoro e nei rapporti personali, a scuola e in parrocchia. E non solo alle nostre latitudini.

Così, dall’Africa all’Asia fino alle aree più periferiche dell’Oceania, oggi anche i missionari si stanno riscoprendo sempre più “social”, chiamati a raccogliere le provocazioni ma anche le opportunità che, nell’evangelizzazione e nella pastorale, vengono dalla diffusione globale delle nuove tecnologie della comunicazione.

«Qui in Thailandia è stato pro­prio l’impatto del Covid-19, con i successivi lockdown forzati, a portarci ad approfondire la riflessione sulle possibilità preziose offerte dai nuovi media, che fino ad ora guardavamo con un po’ di sospetto», conferma padre Marco. La sua è una presenza rurale, tra i popoli tribali della zona – akha, lahu, karen, mon… – «eppure anche qui, soprattutto in seguito al recentissimo fenomeno dell’emigrazione temporanea di tanti giovani dei villaggi, i nostri fedeli sono ormai quasi tutti in rete, almeno per le app di messaggistica: ci siamo resi conto che attraverso il web possiamo raggiungere anche molti di quelli che vivono nelle località più remote nella foresta e che spesso di persona riusciamo a incontrare di rado, magari per una Messa ogni due o tre mesi», racconta il sacerdote milanese.

Così, mentre tutte le attività della missione vengono oggi rilanciate da una pagina Facebook dedicata, è nato anche un progetto di formazione on line: «Un sito internet e una app in cui i nostri prayer leader hanno a disposizione, sia in lingua akha che lahu, dei materiali di approfondimento come riflessioni sul Vangelo della domenica, schede bibliche, testi sui sacramenti… Abbiamo già un canale YouTube dedicato e l’obiettivo è creare un database dei diversi anni liturgici in cui i catechisti possano accedere a video di commento ai Vangeli utili per preparare le omelie o da mostrare direttamente durante la liturgia della Parola da loro guidata».

Non solo. «Puntiamo a usare i nuovi media anche per l’alfabetizzazione in lingua akha e per la preservazione della cultura tribale: realizzeremo interviste sulle tradizioni nei villaggi per creare una memoria collettiva da consegnare ai giovani, che devono affrontare un salto mortale tra mondi diversi, con sfide complicate sul fronte sia sociale sia della fede». Va nella stessa direzione il progetto di traduzione della Bibbia in akha, portato avanti con costanza da padre Ribolini (e accessibile sui canali social), che intanto nelle scorse settimane ha presieduto la dedicazione della sala computer dell’ostello di Mae Suay al beato Carlo Acutis, «una figura che ha molto colpito i nostri giovani educatori e a cui ci ispiriamo per aiutare i ragazzi a trovare un punto di incontro tra fede e modernità. Incoraggiandoli anche al pensiero critico, che nella società thailandese non è incentivato».

Nella missione di Kharu­banga, distretto di Darjeeling, nello Stato indiano del Bengala occidentale, proprio fuori dalla parrocchia è da poco spuntata un’antenna per il segnale internet. Anche qui, zona di piantagioni di tè a perdita d’occhio dove lo stile di vita è essenziale e la povertà diffusa, i nuovi media sono arrivati e stanno influenzando fortemente la quotidianità delle nuove generazioni.

«L’oggetto più ambito è il cellulare, anche chi non ha studiato e lavora nei campi ce l’ha ed è iper connesso», racconta padre Prasanth Kumar Gunja, che nella recente missione del Pime è viceparroco e responsabile dell’animazione spirituale dei giovani. «A tarda sera, quando il segnale raggiunge anche i villaggi, gruppi di ragazzi e ragazze si ritrovano in posti fissi dove la rete è migliore e si siedono per ore sotto le piante di bambù a chattare, controllare la posta elettronica, guardare Facebook o YouTube e soprattutto giocare a Pubg, popolarissima sfida on line che connette migliaia di giocatori».

Il problema, spiega il missionario 34enne, indiano del Sud che qui sta approfondendo la conoscenza della lingua hindi e della cultura tribale locale, è che «non tutti sono preparati a usare bene questi nuovi strumenti tecnologici. La maggioranza è presa dalla moda collettiva di postare foto sui propri profili virtuali ma non è in grado di sfruttare le potenzialità delle app ad esempio per lo studio. Per chi va a scuola, la pandemia con la conseguente necessità di seguire le lezioni on line ha rappresentato un incentivo a imparare a fare ricerche e approfondire contenuti sul web, ma la lingua inglese costituisce un ostacolo».

Di fronte a queste sfide, i missionari non sono rimasti a guardare. Se da una parte, durante i vari lockdown, padre Prasanth ha sempre utilizzato i social per diffondere le celebrazioni ma anche video di riflessione e materiali destinati ai ragazzi in alternativa ai campi vocazionali in presenza – perché «se l’evangelizzazione è sempre la stessa gli strumenti possono cambiare» – dall’altra ci si è concentrati sulla formazione. «Insieme al parroco, padre Xaviour Ambati Babu, ci siamo resi conto dell’urgenza di insegnare ai giovani come fare un uso corretto dei cellulari e parallelamente coltivare relazioni sane. Purtroppo il Covid ha rallentato i nostri progetti ma quest’estate organizzeremo un ciclo di incontri qui in parrocchia: i ragazzi hanno un grande bisogno di punti di riferimento fidati per orientarsi tra i retaggi tradizionali e gli influssi che, in quest’area di confine, arrivano dai Paesi vicini, a cominciare dal Nepal, più liberale».

Non molto diverse da quelle asiatiche sono le dinamiche social della Papua Nuova Guinea, dove la pandemia di Coronavirus, sottotraccia sino a metà marzo, ha costretto a quattro settimane di chiusure proprio a ridosso di Pasqua. E così, anche la Chiesa cattolica, già molto attiva nella comunicazione on line per poter superare distanze e disagi dovuti alla dispersione dei fedeli su una miriade di isole, ha messo in campo nuove creatività e risorse.

«Ovunque c’è connessione, la gente e soprattutto i giovani usano ampiamente i social – conferma padre Giorgio Licini, attuale segretario generale della Conferenza episcopale papuana e in passato responsabile della comunicazioni sociali, nonché lui stesso missionario molto “connesso” -. La cosa interessante per quanto riguarda la nostra realtà è che la Chiesa si muove lungo due assi: quello della comunicazione attraverso vari strumenti come televisione, radio, newsletter, siti e social media; e quello della media education, cioè dell’educazione all’uso dei nuovi mezzi tecnologici rivolta ad adulti e soprattutto a giovani e studenti. È un ambito, quest’ultimo, fondamentale se si vuole educare i ragazzi a un corretto uso degli strumenti di comunicazione e in particolare delle reti sociali, che in questo tempo di Covid-19 sono diventate ancora più rilevanti e hanno permesso di mantenere i legami e portare avanti molte attività, con tanti risvolti positivi, ma anche qualche deriva negativa».

Se anche l’Africa non è stata risparmiata dal Covid-19 – a dispetto dei dati “ufficiali” molto contenuti – pure qui, in tempo di continue chiusure e aperture, il ricorso a cellulari e app è stato in molti casi indispensabile. Con­nessione permettendo, ovviamente. Perché il divario digitale si sovrappone ancora oggi alle geografie della povertà. Che in Africa il Coronavirus ha reso ancora più drammatica e diffusa.

Per i missionari del Pime che vivono nel Nord della Costa d’Avorio, ad esempio, il lockdown ha accentuato un isolamento che è già parte integrante della loro vita di missione. «La gente è troppo povera per potersi permettere un cellulare e la connessione troppo scarsa o addirittura inesistente nei villaggi». È l’esperienza di padre Anand Mikkili da Ouassadougou, nel­la sa­vana a ovest di Bouaké: «Siamo in una zona rurale, dove i giovani, che sono i più dinamici sui social, sono molto pochi, perché vanno a studiare in città già a partire dalla scuola media».

Anche l’esperienza di padre Kumar Peeke, parroco di Kani, non è molto dissimile. Seppure si tratti di un grande villaggio, molte persone non hanno il cellulare o ne hanno versioni molto rudimentali. «Durante il lockdown più severo dello scorso anno non potevamo muoverci. In città la connessione è abbastanza buona e riuscivamo a raggiungere alcuni collaboratori che a loro volta si facevano da tramite con le persone che stavano loro vicine. Tutte le domeniche mandavo un messaggio sms ai responsabili di comunità e agli insegnanti con una piccola riflessione sul Vangelo e le letture. Ma nei villaggi e negli accampamenti all’interno delle piantagioni, dove non potevamo andare di persona, non c’è connessione. Ogni tanto, qualcuno si spostava in cerca del segnale e ci chiamava per darci notizie».

Bisogna raggiungere contesti un po’ più urbani per trovare un impatto più significativo dei social in tempi di pandemia. Bissau, in questo senso, è emblematica. Pur essendo una capitale continua ad assomigliare a un grande villaggio, sia per la struttura urbanistica, sia per servizi e infrastrutture, sia per la copertura della rete telefonica e di internet. Ma anche per la povertà della gente. Qui, a cavallo tra città e campagna, tra tradizione e modernità, tra molta miseria e isole di benessere, le chiusure a intermittenza imposte dal governo hanno costretto la Chiesa e i missionari a nuove forme di impegno anche sul fronte social.

Ne sanno qualcosa i due missionari del Pime che vivono nella parrocchia di Fatima, padre Giovanni Demaria e padre Davide Sciocco. Il primo, che è il parroco, ha dovuto affrontare la sfida già a distanza. Rientrato in Italia a febbraio dello scorso anno, è rimasto bloccato per quattro mesi e mezzo proprio a causa della prima ondata di Coronavirus, che ha interrotto tutti i collegamenti internazionali. «Io che tendenzialmente non sono molto social – ammette padre Giovanni, che è in Guinea-Bissau da 8 anni e, oltre a essere parroco, è supervisore di un grande complesso scolastico con 940 alunni e assistente spirituale del gruppo scout e del gruppo giovani – mi sono dovuto “convertire” all’uso di questi strumenti. Mentre ero in Italia, ad esempio, ho tenuto un corso di formazione sul tema dei valori, delle regole di vita e della gestione del tempo in un periodo di chiusura delle scuole o di altre attività. L’ho fatto con brevi messaggi vocali su WhatsApp. I giovani della parrocchia potevano interagire con domande o interventi. È una modalità che permette di comunicare anche sentimenti ed emozioni grazie al tono della voce, senza essere “invadente” o dispersiva come il video. O pesante da scaricare».

Anche in un contesto come Bissau, infatti, molti possiedono cellulari semplici e non possono permettersi di spendere troppo per la connessione dati. Per questo usano ancora poco YouTube e al massimo cambiano spesso lo stato di WhatsApp. «Per adolescenti e giovani, tuttavia, credo che sia fondamentale il coinvolgimento personale, in presenza. Per questo, ho vissuto questa “fase social” come una soluzione provvisoria, che ci aiuta a resistere e a portare avanti le relazioni». E questo vale anche fuori dal Paese: «Abbiamo ripreso molti contatti con giovani della parrocchia che ora sono in giro per il mondo, ma che mantengono un forte senso di appartenenza». Insomma, questi strumenti possono aprire a dimensioni geograficamente inaccessibili, ma anche a qualche “deviazione” morale, lascia intendere il missionario…

Lo ammette pure padre Davide Sciocco, che con i media ha una certa dimestichezza, avendo lavorato sia a Radio Sol Mansi che alla nostra rivista. Però ne vede soprattutto i lati positivi: «Catechesi, formazione, momenti di preghiera… Sono state tante le occasioni in cui abbiamo usato i social sia con i giovani che con gli adulti. Le donne, poi, sono particolarmente attive. Loro stesse hanno creato gruppi di preghiera, cercato letture e riflessioni.  Anche gli altri gruppi – corale, adolescenti, giovani, scout, valentes e così via – si sono organizzati. I carismatici poi sono attivissimi. Noi abbiamo proposto formazioni, invio di testi biblici, Lectio divina una volta la settimana; insomma, c’è stato un buon dinamismo, almeno qui in città. Abbiamo usato qualche volta anche Zoom, per incontri e coordinamenti, ma consuma molto. La gente, il più delle volte, non ha i mezzi per usare alcune funzioni».

Anche per questo – ma soprattutto perché certe celebrazioni hanno tutto un altro valore e sapore in presenza – padre Davide e padre Giovanni, così come tutti i loro parrocchiani, sono stati molto felici di poter celebrare la Settimana santa e la Pasqua in presenza. E se lo sono detti anche con un mucchio di WhatsApp!

 

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LA GIORNATA

Domenica 16 maggio la Chiesa celebra la Giornata mondiale delle comunicazioni sociali. Il tema scelto da Papa Francesco per il suo messaggio quest’anno è «Vieni e vedi (Gv. 1,46). Comunicare incontrando le persone dove e come sono». Nella sua riflessione il Papa parla anche dei social network indicandone tanto le potenzialità quanto i limiti: «Tale consapevolezza spinge non a demonizzare lo strumento, ma a una maggiore capacità di discernimento e a un più maturo senso di responsabilità».