Noi cristiani turchi ancora nel mirino

Noi cristiani turchi ancora nel mirino

Non solo Santa Sofia: tra attacchi alle chiese e violazioni, una nuova ondata di intolleranza sta investendo le minoranze. «È ora di porre fine all’impunità», afferma il parlamentare siriaco Tuma Çelik. Dalla politica ai media, un linguaggio violento  è diventato la normalità

 

Gravi attacchi verbali ma anche chiese sfregiate, un rapimento e un caso di omicidio irrisolti, una politica di costanti violazioni dei diritti e un clima di odio che aleggia sempre più pesante in tutti i settori della società: in Turchia la vita per i cristiani si fa ogni giorno più dura.

La questione di Santa Sofia, la basilica bizantina trasformata in moschea nel 1453 e che il presidente Erdogan, tra le polemiche globali, ha ora riaperto al culto islamico per compiacere la propria base elettorale in un momento critico per il suo consenso, è solo un elemento di propaganda in più che rafforza il pericoloso discorso nazionalistico, purtroppo ricorrente nel Paese, secondo cui solo i musulmani sunniti possono essere considerati veri cittadini turchi, fedeli alla loro nazione. Tutti gli altri, cristiani in testa, sono costantemente a rischio di finire nella categoria dei “traditori”. Una categoria in cui oggi – a onor del vero – sono infilati senza troppi distinguo ebrei e musulmani aleviti, curdi (pur in maggioranza sunniti), ma anche dissidenti, attivisti, giornalisti e accademici non allineati al potere. E, naturalmente, chiunque sia sospettato di far parte della presunta rete terroristica “Fetö”, ossia il movimento legato al predicatore musulmano Fethüllah Gülen, oggi in esilio negli Stati Uniti, accusato di essere il mandante del fallito golpe di quattro anni fa. Un comodo “nemico pubblico numero uno” per l’efficiente macchina del fango a servizio del presidente, che lo usa per bersagliare con nuovi sospetti i tradizionali “avversari interni” e sviare così l’attenzione dai problemi reali, come la grave crisi economica del Paese. È il caso del recente dossier pubblicato dalla rivista Gerçek Hayat, legata al genero di Erdogan, che indicava tra i membri di “Fetö” nientemeno che il patriarca ecumenico di Costantinopoli Bartolomeo I, il rabbino capo di Istanbul Isahak Kahleva e il patriarca armeno Shenork I Kalutyan, scomparso nel 1990.

Accuse che potrebbero apparire ridicole, se non provocassero effetti reali in parte dell’opinione pubblica, sempre più contagiata dall’odio e propensa alla violenza. A istigare la quale, di fatto, è spesso in prima persona lo stesso “presidente sultano”. Lo scorso maggio, in alcuni discorsi pubblici dedicati alla reazione del governo alla pandemia di Coronavirus, il capo dello Stato non solo si è scagliato contro «le lobby armena e rum» (gli ortodossi di tradizione greca), ma ha addirittura usato l’odioso termine “resti della spada”, l’espressione dispregiativa utilizzata per indicare i sopravvissuti ai genocidi di inizio Novecento ai danni di cristiani armeni, siriaci e greci.

Guarda caso, nei giorni seguenti, due importanti chiese armene di Istanbul hanno subito attacchi vandalistici, mentre alcuni membri della Hrant Dink Foundation, dedicata alla memoria del giornalista turco-armeno assassinato nel 2007, hanno ricevuto minacce di morte. «In Turchia i discorsi di odio, specialmente contro le minoranze, non sono certo una novità, ma oggi questa situazione ha raggiunto un livello allarmante», denuncia il parlamentare turco Tuma Çelik, cristiano siriaco originario di Mardin. «Come cristiani, abbiamo subito queste aggressioni fin dal 1915 e periodicamente vi veniamo ancora sottoposti, e questo perché il Paese non si è mai confrontato con i crimini del passato», afferma il politico, eletto nelle file del partito progressista Hdp.

Perché assistiamo a questa nuova ondata di intolleranza?

«Nella nostra società purtroppo esiste un ultra-nazionalismo che si nutre di fanatismo, antisemitismo e cristianofobia latenti. Oggi, tuttavia, questi sentimenti sono stati “normalizzati” nei più svariati settori della società, dalla scuola ai media fino alla politica. Il governo, con il suo linguaggio e con la sua mancata reazione di fronte ai crimini di odio, alimenta questo clima facendo rivivere vecchi pregiudizi. L’assenza di sanzioni legali contro i discorsi discriminatori si trasforma in impunità e, in una società che non è educata al rispetto per l’altro, questo ha portato a un aumento degli attacchi ai danni dei cristiani, delle nostre chiese e dei nostri cimiteri».

Pensa che esista una strategia pianificata per colpirvi?

«Alcune coincidenze sono sospette. Non credo che la pubblicazione del dossier di Gerçek Hayat, il cui gruppo editoriale ha notoriamente stretti rapporti con il potere, e le dichiarazioni del presidente in quello stesso periodo siano state casuali. Penso che si siano voluti mettere nel mirino i rappresentanti delle comunità cristiane ed ebraiche: ecco perché con alcuni colleghi parlamentari abbiamo immediatamente presentato un reclamo penale contro la rivista».

Nel Sud-est del Paese, terra dei cristiani siriaci da cui lei stesso proviene, si sono verificati episodi molto gravi: a gennaio un monaco è stato arrestato per “terrorismo”, mentre due anziani coniugi sono scomparsi. E se il corpo senza vita della donna è stato poi ritrovato accanto a un fosso da suo figlio, un sacerdote cattolico caldeo, dell’uomo non si è più saputo niente… Che cosa pensa di questi fatti?

«Sefer Bileçen, conosciuto come padre Aho, del monastero di Mor Yakoup a Mardin, è stato arrestato in fretta senza alcuna prova, basandosi solo su una singola testimonianza secondo cui aveva dato pane e acqua a dei membri del Pkk: una procedura contro cui si sono levate forti reazioni anche all’estero. In seguito alla nostra campagna di pressione il monaco è stato rilasciato, ma le autorità giudiziarie hanno intentato una causa contro di lui per presunta “appartenenza all’organizzazione terroristica” e attendiamo ora l’udienza, sospesa a causa della pandemia.

Quasi contemporaneamente si è ve­ri­­fi­­cata la scomparsa dei coniugi Hürmüz e Simoni Diril da un villaggio evacuato durante i conflitti tra esercito e ribelli curdi negli Anni 90. Parliamo di regioni abitate per millenni da cristiani siriaci il numero dei quali però, dopo il genocidio di inizio Novecento, che noi chiamiamo Sayfo ossia “Spada”, e dopo l’esilio dall’Hakkari del 1924, si fece più esiguo, per poi diminuire drasticamente in seguito alle tensioni degli ultimi decenni. Tuttavia, nonostante le pressioni che continuano ancora oggi, alcuni siriaci hanno scelto di rimanere mentre altri, dopo l’esilio forzato, stanno cercando di tornare, proprio come avevano fatto padre Aho e la coppia caldea. I fatti recenti ci portano a pensare che qualcuno, anche tra le autorità, non approva questo ritorno».

Perché ne è convinto?

«Il villaggio dove sono scomparsi i coniugi Diril si trova in una “zona militare proibita”, sottoposta a sorveglianza 24 ore su 24. Dunque: se una famiglia sparisce nel nulla in un’area sorvegliata, e se il rapporto sull’autopsia riguardante il corpo della donna non viene stilato per tre mesi, il sospetto che una parte dello Stato sia connivente viene. Il problema è che, di fronte alle nostre accuse e ai dubbi che abbiamo diffuso su ogni piattaforma possibile, nessuno ha reagito, nessuno ci ha detto: “Vi sbagliate, non è così”».

Che cosa dovrebbe fare la politica di fronte alla violenza e all’impunità?

«Dopo gli attacchi alle chiese a Istanbul, io e il mio collega armeno Garo Paylan abbiamo fatto un’interrogazione parlamentare in cui chiedevamo provocatoriamente: “Sareste rimasti zitti se queste aggressioni fossero state compiute contro delle moschee?”. Volevamo sottolineare il silenzio colpevole della politica: né il presidente né i ministri, infatti, in quell’occasione hanno rilasciato una sola dichiarazione di condanna. E invece bisogna partire proprio dalle parole, educando a un linguaggio tollerante e sanzionando quello che semina odio. A cominciare dalla scuola».

Quali sono i limiti del sistema educativo turco?

«Il sistema pubblico di istruzione primaria è orientato all’uniformità, mentre dovrebbe aprirsi al pluralismo ed eliminare narrazioni che trasmettono l’odio alle generazioni future. Un approccio fondamentale anche nei media: bisogna implementare le leggi che promuovono l’informazione di taglio diverso e nelle varie lingue parlate in Turchia, soprattutto nel servizio pubblico. In generale, serve una nuova visione nei confronti delle minoranze».

In che senso?

«A dispetto del quadro giuridico, la struttura sociale della Turchia dal punto di vista etnico e religioso è plurale. Pertanto, dovrebbe essere sviluppata una politica delle minoranze che vada oltre il Trattato di Losanna del 1923. Bisogna garantire i diritti di tutti i gruppi etnici, linguistici e religiosi secondo gli standard internazionali: le minoranze devono poter aprire le loro scuole e alle loro fondazioni devono essere restituite le proprietà confiscate nel passato. Dobbiamo confrontarci con la nostra storia – riconoscere i crimini e punire i responsabili – per evitare che si ripeta».

Come vivono questo ennesimo momento difficile i cristiani turchi? Siete scoraggiati?

«Non abbiamo perso la speranza, e non la perderemo. Anche se siamo chiamati “traditori” e veniamo sottoposti ad attacchi, amiamo sinceramente questo Paese e vogliamo proteggerlo. Dunque, continueremo la nostra lotta senza darci per vinti».