Anche in Italia ripartire dalla missione

Anche in Italia ripartire dalla missione

Dopo gli anni di servizio nell’animazione dei giovani al Centro Pime di Milano padre Fabrizio Calegari torna in Bangladesh. Ma ha un messaggio da lasciare alla Chiesa italiana. Per andare «oltre la paralisi»

 

Tornare a lavorare in Italia dopo anni di missione è un’esperienza interessante e sfidante per tanti motivi.
Uno di questi è confrontarsi con la sostanziale paralisi nella quale vive la Chiesa italiana, apparentemente incapace di darsi una sveglia di fronte alla progressiva desertificazione delle nostre comunità. In questi anni di servizio in Italia ho girato anche molti seminari diocesani e incontrato tanti preti di diverse diocesi con i quali è stato davvero prezioso confrontarsi. E ho raccolto molto spesso l’impressione dello scoraggiamento o lo sconforto di chi non sa più che pesci pigliare. Ma anche la voglia di cambiare e ripensarsi come Chiesa e popolo di Dio. E mi sono chiesto: la missione ad gentes e ad extra ha ancora qualche cosa da dire alla Chiesa italiana oggi? Forse anche noi missionari dobbiamo avere più coraggio nel ridire le ragioni dell’evangelizzazione, qui a casa.

Dramma o opportunità? C’è un brano di Vangelo che, a mio parere, fotografa bene la situazione attuale, la pagina di Luca 9,51-62: «Le volpi hanno le loro tane e gli uccelli del cielo i loro nidi, ma il Figlio dell’uomo non ha dove posare il capo». «Lascia che i morti seppelliscano i loro morti; tu invece va’ e annuncia il regno di Dio»… Rimanere prigionieri della nostalgia per un tempo che è stato, «quando le chiese erano piene», o della delusione per quello che resta, è una trappola dalla quale il Signore ci libera con parole dure e senza troppi fronzoli o carezze, per ricordarci anzitutto chi siamo: discepoli e annunciatori. Prendere atto che non è più come prima, che tutto o quasi è cambiato, senza inutili rimpianti, è il primo passo per uscire dalle secche di una navigazione a vista. A guidarci dovrebbe essere la consapevolezza di stare con il Signore su una strada e non dentro un fortino a difendere i resti di quel che c’è. Guardare indietro ci fa solo sbagliare il solco nuovo.

Probabilmente per sua natura la missione, meno strutturata, più abituata ad adattarsi alle esigenze e al territorio, se non alle emergenze, ci ha allenati ad avere uno sguardo diverso sulla realtà. Più flessibile forse. Ecco: questo tipo di sguardo normalmente qui non lo vedo.

La catechista, che racconta scandalizzata che nessuno dei bambini sa fare il segno della croce è l’icona di una Chiesa che non capisce una cosa fondamentale. E cioè che questa nuova situazione non è un dramma ma un’opportunità straordinaria: quella del primo annuncio, senza precomprensioni o pregiudizi, con il solo privilegio di poter raccontare il Signore Gesù a chi ancora non lo conosce. Accenderne nel cuore la meraviglia dell’incontro. Possiamo pensare a un’occasione più grande?

Imparare una lingua. Per noi missionari il confronto con la cultura del Paese che ci ospita è vitale e continuo. In qualche modo ci siamo costretti. Questo non ci ha messo al riparo da tanti errori, però ci ha permesso spesso di entrare un po’ di più dentro la vita della gente: molto prima che cambiare gli altri, questa tensione ha tante volte sortito l’effetto di cambiare noi. Ne siamo usciti arricchiti perlomeno umanamente. Perché la cultura non è una cosa astratta ma è fatta da persone concrete, quelle che ci stanno davanti.

La fatica di imparare una lingua (in Asia ci vogliono anni), a capire e a farsi capire, a comprendere un modo di vivere, affrontare i problemi, pensare, ci costringe a non fossilizzarci su un modello unico e a provare strade diverse e fuori dai soliti schemi. Ci obbliga a dire quanto si può, non quello che si vuole, con il vantaggio di dover andare subito al cuore della parola che proclamiamo, senza perderci in troppi fronzoli. Non so più le volte che mi sono chiesto: sarò riuscito a spiegarmi? Avranno capito?

In Italia il fatto di vivere dentro una cultura non significa automaticamente comprenderla. Parlare tutti la stessa lingua non vuol dire per questo riuscire a farsi capire. Anzi, come Chiesa siamo spesso esempio dell’esatto contrario. Anche nella liturgia: va bene celebrare il mistero, ma talvolta si ha l’impressione che ci impegniamo per renderlo soltanto oscuro.

Il baricentro. La missione ci ha fatto capire con durezza che se anche esiste la parrocchia, non coincide con la residenza del prete. Quando si hanno decine di villaggi da visitare costantemente, lontani molti chilometri, si arriva a capire prima o poi che il baricentro è nettamente spostato fuori. Non è la gente a dover raggiungere noi, ma noi a dover raggiungere la gente. Cambiare questa concezione “tolemaica” della parrocchia è sicuramente uno dei punti nodali. La domanda non può essere solo «perché la gente non viene più in chiesa?», ma anche «come fare per raggiungerla?». Siamo ostaggio di strutture e tradizioni, dei «si è sempre fatto così», ma la parrocchia è una cosa viva, non il museo delle cere. È davvero impossibile provare, tentare, inventare qualche cosa di nuovo? Diamo pure per scontati gli errori: se non altro ci avremo provato. E in duemila anni di storia della Chiesa non saranno neppure i peggiori.

Il ruolo dei laici. Non riesco a immaginare il lavoro in missione senza l’aiuto dei laici. Cioè della comunità. Avrei fatto moltissimi sbagli in più senza di loro. Molto meno istruiti di noi stranieri, a volte “il meno peggio” disponibile, però comunità è lo sforzo di fare le cose insieme. Con il consiglio pastorale chiamato a pensare e scegliere, non solo a ratificare quanto il parroco ha già deciso per tutti. Perché un percorso di cambiamento non è del singolo prete mandato allo sbaraglio: è il cammino di tutta la comunità. Ci siamo rifiutati per decenni di far crescere un laicato responsabile che potesse affiancare, con le sue vocazioni e competenze, i sacerdoti nell’esercizio del loro ministero, pur sapendo che saremmo arrivati a questo punto. Non è mai troppo tardi per cambiare rotta.

La fraternità. Una delle cose più belle e preziose che ho trovato in missione è stata sicuramente l’amicizia e la fraternità con i miei confratelli del Pime. Nella difficoltà di trovarsi stranieri e senza la possibilità di avere rapporti “normali” con la gente come in Italia, la fraternità tra di noi è stata una benedizione in tantissime occasioni: il confronto su una scelta pastorale, la testimonianza di passione e sacrificio, una spaghettata o una partita a carte, luogo di sfogo o di conforto nei momenti di difficoltà. Ho spesso l’impressione che il prete in Italia patisca non poco la solitudine e credo che la vita comune possa essere un ottimo antidoto a tante fatiche che l’essere soli genera. È vero che non siamo religiosi e non abbiamo l’obbligo della vita comunitaria, eppure questa scelta mi sembra sempre più necessaria, già a partire dalla formazione.

La gioia del Vangelo. Ho sempre pensato che la missione non sia un fatto puramente geografico. Per alcuni come me, è importante dare anche una risposta all’imperativo di Gesù: «Andate in tutto il mondo» (Mc 16, 15). Il che significa anche in tutti i mondi: non c’è ambito della vita umana che non interessi alla nostra azione pastorale. La questione non è tanto qui piuttosto che . Perché la missione nasce anzitutto da uno slancio che viene da dentro. Nasce dall’aver capito che non è la stessa cosa conoscere Gesù e non conoscerlo. Viene dalla gioia di averlo incontrato e sentirlo compagno di strada ogni giorno. Se davvero seguirlo mi fa felice, come faccio a non raccontarlo, a ridirlo, a non contagiare altri? E se ho capito che l’incontro con Lui ha cambiato la mia esistenza dandole un senso e una forza che non avevano, allora come non invitare nuovi amici a fare la stessa esperienza?

Il problema vero è di fede: la mia anzitutto e della comunità. Sembra quasi che dietro a questa crisi si nasconda il dubbio che il Vangelo abbia perso forza, non sia più una buona notizia capace di deflagrare nel cuore dell’uomo. E se non sorprende più me, è perfino inutile parlarne ad altri. Invece chi lavora nella pastorale giovanile (ma non solo) sa benissimo quanta sete ci sia delle parole di Gesù e quanto portino ancora frutto. Abbiamo sentito dire fino allo sfinimento che «la missione ormai è anche qui», senza che peraltro cambiasse mai nulla nella pastorale. Ma non ci credeva nessuno, era solo uno slogan vuoto. La missione non è un piano pastorale, una strategia diversa, una mano di vernice dai colori vivaci: è esattamente il modo di essere o non essere Chiesa e vivere il nostro essere discepoli dietro al Signore risorto. È la nostra fede che trova il modo di ridire e testimoniare Colui che ci muove e le ragioni che ci fanno vivere. Se abbiamo dentro questo motore, cadono tante barriere e confini inutili, che abbiamo solo nella testa. Se a spingermi è la voglia di annunciare, troverò nuove strade, inventerò altri modi, imparerò nuove lingue e lo faremo insieme. Qualunque cosa, fuorché stare fermi e barricati dentro ad aspettare l’inevitabile. È un tempo di grazia quello che stiamo vivendo: nella vigna del Signore c’è lavoro per tutti.