Lacrime per il nostro Myanmar

Lacrime per il nostro Myanmar

Non se ne parla più, ma la situazione in Myanmar si aggrava di giorno in giorno. Come testimoniano le Suore della Riparazione birmane che, dentro e fuori il Paese, danno voce al dramma della loro gente. E che mercoledì 10 novembre porteranno questo grido al Centro Pime di Milano in una serata speciale per riaccendere i riflettori su questa crisi dimenticata

«Ogni giorno ci giungono orribili notizie: persone arrestate, torturate, violentate, massacrate e bruciate vive; chiese, luoghi sacri, case dei villaggi e delle città bruciati, bombardati; sfollati sempre più numerosi, inseguiti, arrestati, uccisi». È la testimonianza di madre Beatrice, una delle oltre 380 Suore delle Riparazione birmane che, dentro e fuori il loro Paese, condividono con le famiglie e il popolo del Myanmar il dramma di un conflitto civile innescato dal colpo di Stato dello scorso primo febbraio. «La nostra amata patria sta soffrendo terribilmente per i suoi figli che si ammazzano tra di loro», racconta la religiosa di questa Congregazione fondata a Milano nel 1859 da uno dei primi missionari del Pime, padre Carlo Salerio, e da madre Maria Caro­lina Orsenigo.

Dall’ottobre 1895 le Suore della Riparazione sono presenti soprattutto nei villaggi più remoti del Myanmar dove i missionari del Pime le introdussero per intraprendere un cammino di condivisione con le popolazioni locali e in particolare con le donne che continua ancora oggi. Un cammino che ha dato moltissimi frutti, sia in termini di vocazioni che in termini di presenza. Attualmente le religiose sono in 13 delle 16 diocesi birmane con ben 62 conventi; alcuni però sono stati chiusi negli scorsi mesi per sfuggire alle persecuzioni e alle rappresaglie. Di conseguenza, sono state sospese alcune fra le moltissime attività che le religiose svolgono in tutti i campi: da quello pastorale alle scuole nei villaggi, dalla Home per gli anziani di Yangon ai centri sanitari, dall’accoglienza degli orfani al servizio nelle prigioni sino all’assistenza a profughi e sfollati che già erano presenti in alcune aree del Paese (come negli Stati Kachin e Shan) e che ora sono aumentati in maniera esponenziale. Ma se da una parte si sono dovute chiudere alcune attività, dall’altra questa situazione di emergenza ha aperto le porte di non pochi conventi per accogliere le persone in fuga dalle loro abitazioni, specialmente anziani e ammalati, impossibilitati a fuggire nella foresta. E, purtroppo, non bastava la guerra civile a devastare questo Paese ferito: ad essa si è aggiunta la pandemia di Covid-19 che sta mietendo molte vittime perché le persone non possono curarsi. Così, a contatto con i malati da assistere, anche alcune fra le religiose hanno contratto il virus e una di loro è morta.

 

Si tratta insomma di drammi che toccano da vicino queste religiose sia perché vivono dal di dentro e sulla loro pelle la tragedia dei popoli del Myanmar, ma anche perché, per coloro che sono in Italia, è particolarmente doloroso raccogliere e accogliere il grido dei loro cari e delle loro consorelle, non potendo in nessun modo tornare per assisterli e avendo molta difficoltà a mantenere un contatto.
«È molto difficile comunicare – conferma commossa madre Sigismonda – e quando riesco a sentire la mamma, le dico che desidero tornare a rivederla, ma lei mi dice che “adesso è pericoloso, non si può. Resta tranquilla dove sei, figlia mia, e prega per noi. Se dovessi morire, mi raccomando, non preoccupatevi di me, rimanete uniti e cercate di volervi bene’’. Io però spero e prego il Signore perché mi faccia il dono di poterla rivedere al più presto». La sua consorella, madre Bene­detta, è invece in Myanmar, ma anche da lì ha molte difficoltà a contattare la mamma: «Da tanto tempo non riesco a sentirla e sono molto preoccupata: non posso andare a trovarla perché il villaggio dove abita è stato sbarrato dai militari del regime».

 

Sono coraggiose queste religiose che fanno parte di una piccolissima minoranza di circa 650 mila cattolici su una popolazione di 57 milioni di abitanti. Corag­giose nel restare e anche nel far sentire la loro voce, facendo filtrare fuori dal Paese sprazzi di notizie, di storie e di drammi che altrimenti resterebbero sepolti sotto una coltre di silenzio ormai quasi impenetrabile. Il Myanmar, infatti, è scomparso quasi totalmente dai radar dei media. Ma la situazione sul posto è tutt’altro che pacificata.
A metà settembre, riferisce l’agenzia AsiaNews, circa trentamila persone sono state costrette a fuggire dalla regione centrale di Magwe a causa degli scontri tra esercito e forze di difesa popolare. Negli stessi giorni, migliaia di civili hanno dovuto abbandonare le loro case, spesso date alle fiamme, nello Stato Chin e si sono rifugiate oltre il confine della vicina India. Ma sono solo due delle molte situazioni di conflitto che sono esplose un po’ ovunque nel Paese e specialmente nelle regioni abitate dalle minoranze etniche. In particolare, dopo che lo scorso settembre il governo-ombra, formato da oppositori in esilio, ha invitato la popolazione a ribellarsi alla giunta militare, c’è stata una recrudescenza degli scontri in tutto il Paese. Ma i tentativi delle milizie di attaccare i militari hanno spesso portato a ritorsioni contro i civili. Sono oltre mille quelli uccisi dallo scorso febbraio e 250 mila gli sfollati che vivono in condizioni umanitarie disperate. I militari avrebbero accettato un cessate-il-fuoco sino alla fine dell’anno per garantire la distribuzione degli aiuti, ma non stanno rispettando l’impegno. «Un gesto grave e indicibile – conferma una religiosa – è quello che il regime compie riguardo ai viveri che provengono dagli aiuti umanitari: vengono bloccati, sequestrati e bruciati, invece di essere distribuiti alla gente affamata. Purtroppo avvengono altri fatti sempre più crudeli contro la popolazione inerme».

 

È quello che sta vivendo anche la famiglia di madre Noemi e in particolare sua sorella scappata in foresta con i sei figli: «Da più di un mese viviamo sotto gli alberi e il cibo è quasi terminato – le ha raccontato la sorella dopo un lungo e preoccupante silenzio -. Di frequente sentiamo i bombardamenti e una notte li abbiamo uditi proprio vicini; avevamo paura di venire scoperti, allora ho detto a mio marito e ai miei figli di scappare perché altrimenti saremmo tutti morti. Siamo andati più lontano possibile, ma era difficile trovare l’acqua, finché abbiamo visto un piccolo ruscello pieno di bestioline e di foglie marce e, per sopravvivere, ci siamo fermati lì, nascondendoci fra le rocce. Ho tanta paura, ma faccio finta di essere forte per amore dei miei figli».
«Mia sorella – racconta a sua volta madre Noemi – mi ha chiesto tra le lacrime se riusciremo ancora a rivederci. Dopo un lungo silenzio, ho cercato di rincuorarla, dicendo che tutto è possibile al Signore e le ho promesso di pregare ancora di più perché venga ad aiutarci in questa lunga via dolorosa».
Sono storie spesso quotidiane quelle che raccontano queste religiose della Riparazione, ma danno un’idea lucidamente dolorosa della crisi che ha fatto nuovamente sprofondare il Myanmar in una spirale di violenze e divisioni difficilmente rimarginabili. Anche perché, oltre ai media, anche la comunità internazionale – e l’Europa in primis – non sembrano interessate a intervenire per aiutare a pacificare il Paese, al contrario ovviamente della Cina che – in pace come in guerra – in Myanmar ha molti interessi e punta a consolidarli ulteriormente.
In tutto questo, spesso i cristiani sono vittime due volte: sia perché professano un’altra religione rispetto a quella buddhista predominante; ma soprattutto perché appartengono principalmente alle minoranze etniche e dunque sono ritenuti in qualche modo conniventi con i ribelli. I cristiani di tutte le confessioni rappresentano, infatti, solo il 6 per cento della popolazione ma tra i popoli tribali raggiungono anche il 30 per cento. Insomma, sono due volte “diversi” e anche per questo doppiamente presi di mira.

 

Oltre a preti, pastori e religiosi arrestati e maltrattati, sono numerosi anche i cristiani uccisi e le chiese e i luoghi di culto profanati, distrutti o sequestrati dai militari. «Prima di questa orribile guerra – racconta madre Eugenia – i miei genitori ogni mattina erano soliti partecipare alla celebrazione eucaristica e stavano già pensando, insieme al prete, ai preparativi della festa del loro 50° anniversario di matrimonio, quando è avvenuta la fuga improvvisa dovuta al sopraggiungere dei militari. Sono scappati da un luogo all’altro, sempre alla ricerca di nuove zone per proteggersi dai bombardamenti, nascondendo i bambini sotto le frasche. Hanno portato con sé poche cose e anche alcune statuine della Madonna e, nonostante le privazioni, non hanno mai smesso di pregare. A un certo punto erano troppo stanchi per andare avanti e hanno deciso di fermarsi. In quel posto, hanno sistemato le statuine come meglio potevano in una nicchia ricavata nel tronco di un albero e lì si raccoglievano in preghiera».
Anche il prete aveva perso ogni traccia di loro e delle altre persone del villaggio. Quando è riuscito ad avere qualche notizia, si è messo subito in cammino nel folto della giungla per poterli ritrovare. «È riuscito a raggiungere i miei genitori proprio nel giorno del loro anniversario – racconta la religiosa -. Appena lo hanno visto sono scoppiati in un pianto di gioia al pensiero di poter ricevere la sua benedizione. Subito dopo mi hanno riferito di aver sentito nel cuore un senso di profonda pace e serenità. “Il Signore vede e provvede – mi ha detto mio padre – perché il prete, oltre a portare la benedizione, ha portato anche il riso, proprio nel giorno in cui le nostre scorte stavano per esaurirsi del tutto”. E ha aggiunto, sentendo che non riuscivo a trattenere le lacrime: “Non piangere figlia mia, perché abbiamo tante difficoltà, ma il Signore ci è sempre vicino; nonostante le sofferenze per noi la cosa più importante sono la fede e la preghiera”».

 

«I cristiani, come le altre persone di buona volontà – conferma Madre Beatrice – danno speranza alla gente accogliendola, standole vicino, curando le ferite e consolandola, proprio come il granello di senapa diventato albero che dà ristoro intorno a sé. In certi momenti, però, ci tormenta una domanda: dove sei Dio? È tutto silenzio? Ma non può essere che Dio non ascolti più il nostro grido! Siamo certi che vede la nostra sofferenza e la nostra miseria. Dio ci precede con la tenue luce della sua Parola che accende la speranza nel buio di questa terribile notte, ci precede e ci garantisce la sua tenerezza». MM

 

CRISI DIMENTICATA AL CENTRO PIME

“Myanmar, crisi dimenticata”. Ne parleremo mercoledì 10 novembre alle ore 21 al Centro Pime di Milano. Madre Beatrice, religiosa birmana delle Suore della Riparazione, porterà la sua testimonianza con la senatrice Albertina Soliani, già presidente dell’Associazione Parlamentare Amici della Birmania, amica personale di Aung San Suu Kyi. Una serata in solidarietà con il popolo del Myan­mar, con cui anche il Pime ha un legame forte di antica presenza e vicinanza. L’incontro, organizzato in collaborazione con l’arcidiocesi di Mila­no, AsiaNews e le Suore del­la Riparazione, inaugura un percorso di avvicinamento al Festival della Missione 2022 dal titolo: “Vivere per-dono” (cfr. pp 40-41).