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Icona decorativaIcona decorativa22 Giugno 2021 Franco Cagnasso

Salma

Ho incontrato Salma per la prima volta dodici anni fa. Aveva paura di tutto. Era una donna di ventisette anni, sembrava un ragazzo di undici, dodici anni, con i capelli tagliati molto corti e una camicia sudicia. Era arrivata fra noi provenendo da una specie di comunità con giovani che si drogavano, o mentalmente instabili. Aveva paura di tutto, scappava appena qualcuno la avvicinava. Quando aveva cibo, se ne ingozzava come un animale, guardinga nel timore che glielo portassero via, pronta a difenderlo. Non sapevo che fare con lei. La presi per mano, delicatamente, e si lasciò accompagnare per una breve passeggiata stringendomi tanto da farmi male. Feci così ogni mattina, a lungo. Non diceva niente, muoveva i piedi lentamente… Riuscii a farmela affidare e la portai con me in un piccolo appartamento, insieme ad altre ragazze. Non parlava mai. Una sera, all’inizio dell’inverno, mi avvicinai al suo letto, e a fatica riuscii a capire che sussurrava con voce roca una parola: “kata” (“scialle”). L’inverno in Bangladesh può essere freddo e Salma non aveva mai avuto uno scialle in vita sua. Sembrava non sentire il freddo: nella sua lunga esperienza sulla strada, probabilmente aveva incontrato chi l’aveva picchiata, ma nessuno che si preoccupasse di lei. Forse intuiva che anche se fosse morta di freddo non sarebbe stata una grande perdita. “Scialle” era la prima parola con cui Salma mostrava di preoccuparsi di se stessa. Due mesi dopo trovai Salma seduta sul pavimento con le gambe allungate, come un bimbetto. Stava curva in avanti, tendendo il braccio destro – sano – e il sinistro, leggermente disabile. Aveva in mano un fazzoletto che le avevo dato perché asciugasse la bocca dalla saliva; non si accorse di me, intenta a cercare di pulire il fango che c’era sui suoi piedi. Salma prima di venire da noi era sempre vissuta a piedi nudi, e questa era la prima volta che si accorgeva che erano sporchi, e desiderava pulirli. Passarono altri due mesi senza progressi evidenti. Un giorno, in occasione di una festa, eravamo riuniti in una stanza, ascoltando musica da un vecchio registratore di fronte a noi. Salma taceva, come sempre. Ad un tratto sentii come un forte ululato, che mi ricordò il muggito delle bestie cui tagliano la gola il giorno del sacrificio. Salma stava piangendo, con tutte le sue forze; per la prima volta esprimeva il suo dolore e niente poteva fermarla, era come una diga travolta dalle acque. Questo era vero non solo per Salma, ma anche per altri disabili venuti a vivere con noi. All’inizio, nessuno piange. Rifiutati dai genitori, hanno trascorso lunghi anni sopravvivendo per le strade, senza che nessuno si curasse di loro. Il dolore del loro cuore è semplicemente troppo grande perché si possa esprimere. Da Salma ho imparato che poter piangere è una grande benedizione. Un giorno stavo scrivendo. Salma, come faceva spesso, mi sedeva accanto. Mi voltai verso di lei e chiesi: “Salma, carissima, secondo te dove si trova Allah?” Salma mi fece un largo sorriso, e mi abbracciò forte. Voleva dirmi che Allah è presente in momenti come questi, quando esprimiamo affetto gli uni per gli altri. Mi sono convinta che persone con disabilità mentale hanno un dono particolare per discernere la presenza del sacro. Hanno anche la capacità di sentire come proprie le pene, le sofferenze degli altri. Una mattina scesi per iniziare la giornata, ma avevo la febbre e mi rimisi a letto. Quando aprii gli occhi, vidi Salma seduta a terra accanto al letto; piangeva, e la camicia era già bagnata dalle lacrime. Forse pensava che stessi morendo. Sentii una profonda riconoscenza per lei, e di nuovo capii quanto Salma fosse preziosa per la mia vita. Pian piano, in due anni Salma si è trasformata in una donna con un bel sorriso. Si pettina accuratamente, dice “rossetto, rossetto!” perché la aiutiamo a metterselo sulle labbra. Le piace parlare, muovere le mani mentre canta, danzare con altri. Ma ha anche imparato ad esprimere la rabbia profonda che s’è accumulata in lei. Ha sopportato tanto, con il rifiuto dei genitori da cui aspettava amore, gli insulti e il disprezzo delle persone lungo la strada, senza sapere come chiedere aiuto, senza capire che cosa le accadesse, senza poter piangere, sola nella sua sofferenza. Non riesco ad immaginare la profondità della sua rabbia e del suo dolore. Abbiamo cercato di aiutarla anche con medicine, ma sembrava che nulla fosse efficace. Quando vedevo Salma strapparsi i capelli in momenti di angoscia, mi chiedevo: “Ma perché ha dovuto soffrire tanto?”. Non c’è risposta a questa domanda. Trovo conforto solo pensando che Gesù conosce la sua pena e la sua solitudine. Ha preso su di sé la sofferenza e il dolore del disprezzo. Ecco perché credo che Gesù può capire che cosa stia passando Salma. Non saprò mai dove è nata, come sia stata rifiutata, quali tipi di violenza e di umiliazioni abbia subito sulle strade. Gesù conosce anche la grande tristezza che c’è in me; accompagna tutti coloro che sono stati rifiutati, che hanno sperimentato le sofferenze più laceranti e la solitudine; porta il peso di tutto questo con loro. Per questo so che Gesù vuole essere amato da noi. È silenzioso, impotente, umiliato. Attende che noi lo raggiungiamo con le nostre mani vuote. In questo momento, da qualche parte, ci sono persone che stanno attraversando queste prove. Il loro ritrovare il senso della dignità umana e della sacralità che Dio ha dato a loro, è qualche cosa che sta nelle nostre mani. Dipende da noi. Questa scheggia è la traduzione dall’inglese di una testimonianza di Naomi Iwamoto, missionaria laica giapponese che da anni opera fra disabili mentali in Bangladesh

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