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Nazioni ancora Unite?

A 80 anni dalla fondazione, l’Onu deve essere rinnovata per adattarsi alle nuove sfide globali, ma «il suo modello non è superato: i sovranismi generano conflitti», sostiene l’esperto Sandro Calvani. Ascoltalo anche in PODCAST

«Il secondo segretario generale dell’Onu, Dag Hammarskjold, osservò che le Nazioni Unite non sono state create per portarci tutti in paradiso, ma piuttosto per salvare l’umanità dall’inferno». La citazione del grande diplomatico danese, Premio Nobel per la pace alla memoria nel 1961, è scelta da Sandro Calvani per inquadrare il dibattito sullo stato di salute di un’organizzazione che, a 80 anni dalla sua fondazione (l’anniversario si celebrerà il 24 ottobre, ma già dal 9 settembre si riunisce l’Assemblea generale), finisce regolarmente sotto il fuoco incrociato di chi l’accusa di essere ormai inadeguata, inefficace, addirittura di avere tradito la sua vocazione originaria.

Calvani, oggi presidente dell’Istituto Toniolo per il diritto internazionale della pace e docente di Sviluppo sostenibile all’Asian Institute of Technology di Bangkok, conosce da vicino i meccanismi di un’istituzione nata sulle ceneri della Seconda guerra mondiale per prevenire i conflitti futuri e che in questi decenni ha visto moltiplicarsi i suoi settori di intervento. Per l’Onu è stato capo missione in decine di Paesi, specializzandosi in aree cruciali. Nel 1991 a 39 anni divenne il più giovane direttore della regione africana dell’Organizzazione mondiale della sanità, con sede a Brazzaville. Fu poi distaccato alla neonata agenzia antidroga delle Nazioni Unite: da direttore dell’ufficio in Bolivia contribuì a far crescere il programma di sviluppo rurale alternativo alle coltivazioni di coca.

L’esperienza di Calvani nell’associazionismo cattolico, che lo ha visto gestire diverse missioni anche per la Caritas, ha sempre integrato la sua professionalità. Attualmente si occupa di economia e sviluppo come membro del World Economic Forum e del Global Agenda Council on Poverty: «Nonostante le difficoltà, l’Agenda 2030 per lo Sviluppo sostenibile rimane un quadro di riferimento essenziale per affrontare le sfide globali e promuovere una crescita equa e inclusiva», sostiene l’esperto. Che non nega, tuttavia, la necessità di «profonde riforme e di un aggiornamento dei metodi di lavoro».

Professor Calvani, quali sono le cause principali della crisi dell’Onu?

«Per quanto riguarda le cause interne dobbiamo tenere presente che qualunque istituzione di natura associativa, fosse anche una squadra di calcio, può essere migliore dell’insieme delle sue parti solo se ogni componente si impegna a rispettare le regole e a contribuire agli obiettivi comuni. Purtroppo ci sono Paesi membri dell’Onu che, in nome dello slogan “la mia nazione viene prima”, non pagano i contributi obbligatori e invece di esprimere le proprie critiche in modo costruttivo cercano un capro espiatorio per nascondere il loro debole impegno multilateralista. Tra i rilievi rivolti all’Onu c’è quello riferito ai suoi bilanci, che sarebbero esagerati: si tratta di un’accusa infondata, basti pensare che il personale e il bilancio dell’organizzazione sono inferiori alla metà di quelli della polizia di New York».

C’è poi il grande tema dell’inefficacia del Consiglio di sicurezza, paralizzato dal diritto di veto di alcuni Paesi.

«Il diritto di veto di Usa, Cina, Russia, Francia e Regno Unito, previsto nel 1945 in termini transitori, è rimasto perché quegli Stati non accettano di rinunciarvi. Solo una forte volontà politica quasi unanime dell’Assemblea generale potrebbe eliminare questa grave anomalia che rende non democratico il sistema di assunzione delle decisioni più importanti. Ma quando negli anni recenti l’Assemblea ha approvato quasi all’unanimità risoluzioni di pace o di cessate il fuoco, su Palestina, Ucraina e altre aree di conflitto, i Paesi invasori se ne sono infischiati, dimostrando che il diritto di veto non è l’unico limite importante del sistema».

Quali sono invece le criticità esterne?

«La globalizzazione ha dimostrato che tutte le grandi questioni universali sono connesse. Di fronte a tanta complessità, molti Stati hanno trasferito all’Onu ogni problema internazionale che non sapevano risolvere da soli. Per questo le Nazioni Unite e le sue agenzie oggi sono responsabili di 1.700 mandati su temi di natura transnazionale, ma nella gran parte dei casi non hanno ricevuto né i finanziamenti né l’autorità per decidere. Per esempio su questioni relative agli oceani, ogni governo comprende che non può scegliere da solo, ma nessuno vuole ridurre la propria sovranità. La controprova sono quei programmi, come gli aiuti alimentari, le vaccinazioni essenziali, il monitoraggio dei diritti umani, in cui invece qualche delega è stata concessa a organi Onu, che hanno espletato efficacemente quei mandati. Salvo poi la scelta di alcuni Stati di ritirarsi dalle stesse azioni condivise, per affermare un’asserita “indipendenza”…».

Perché l’obiettivo fondamentale di garantire la pace è sempre più spesso disatteso?

«Tra il 1950 e il 2010, l’applicazione delle regole del diritto internazionale e delle risoluzioni Onu ha permesso di fermare la guerra, salvando milioni di vite umane, in decine di crisi gravi, dalla Corea e Suez negli Anni Cinquanta fino a Kosovo, Sierra Leone, Liberia nell’ultimo trentennio. Diversi accordi di cessate il fuoco e trattati di pace sono riusciti a rammendare i gravi strappi dei conflitti. In troppi altri casi, tuttavia, le grandi potenze coinvolte non hanno accettato di fermare le armi e l’Onu non ha alcun potere coercitivo sulle nazioni che rifiutano le decisioni prese dall’Assemblea generale o dal Consiglio di sicurezza».

Come giudica invece l’azione sul fronte umanitario?

«Alcuni organi come Unicef, Programma alimentare mondiale, Unhcr e altri hanno continuato a fare un eccellente lavoro fin da quando furono creati, 70 anni fa. Nel merito dell’efficienza, nessuno di essi può spendere più del 13% in costi amministrativi, una percentuale giusta se si considerano le estreme difficoltà operative in territori di guerra o post-conflitto. Recentemente hanno dovuto aumentare le spese per la raccolta fondi, dato che i contributi volontari dei Paesi si sono fortemente ridotti rispetto ai bisogni e ai “pledge”, le promesse di finanziamento. Ci sono varie proposte per destinare a questo settore una mini-tassa sulle transazioni finanziarie di Borsa a livello globale: una misura che, se adottata, sarebbe risolutiva».

Qual è finora il bilancio sul fronte degli Obiettivi per lo sviluppo sostenibile? Si tratta, come accusano alcuni, di “liste di promesse impossibili”?

«I 17 obiettivi approvati all’unanimità nel 2015 hanno creato un’agenda comune, per Paesi ricchi e poveri, da raggiungere entro il 2030. In generale i progressi sono troppo lenti e disomogenei. La causa principale è la scarsa volontà politica che si esprime in una perenne insufficienza di fondi dedicati allo sviluppo, sempre pochi rispetto a quelli per l’armamento, che sono invece in crescita. Alcuni obiettivi, come quello relativo alla parità di genere, mostrano progressi significativi mentre altri, come quelli su energia pulita e su pace, giustizia e istituzioni forti, non sono stati raggiunti. La pandemia di Covid-19, poi, ha rallentato i progressi e creato nuove sfide soprattutto su povertà, fame e accesso all’istruzione. Mentre è importante mantenere un monitoraggio trasparente per valutare l’efficacia degli interventi, le priorità di dieci anni fa non sono cambiate. Forse alcuni obiettivi erano troppo ottimisti, ma di fronte ad alcune utopie, tante distopie e troppa apatia, va scelta la “protopia”: l’impegno personale a fare subito ciò che è possibile».

Quali sono stati i successi e i limiti dell’azione su ambiente e clima?

«L’Onu, attraverso le Conferenze delle parti (Cop) a seguito dell’accordo di Parigi, hanno ottenuto successi significativi nella lotta ai cambiamenti climatici, ma affrontano anche ritardi sull’attuazione degli impegni presi. Per esperienza posso dire che le Cop sono una piattaforma per la partecipazione, promuovendo il dialogo e la cooperazione internazionale, e hanno contribuito a mobilitare risorse per sostenere le nazioni più vulnerabili nell’affrontare i cambiamenti climatici. Ma è evidente il grave divario tra aspirazioni, promesse e fatti reali. Inoltre, anche in questo campo la cooperazione è volontaria, locale e di breve termine: ogni volta che cambia un governo possono essere abbandonati gli impegni presi. E, in un settore che richiede un alto livello di conoscenze scientifiche per gestire le scelte locali, sono innumerevoli i casi di leader ignoranti che usano slogan semplicistici e falsi, negando addirittura l’esistenza del cambiamento climatico».

Come giudica l’emergere di nuove forme di “multilateralismo parallelo”, come quello promosso dalla Cina?

«Il multilateralismo è sempre un ottimo metodo di lavoro per risolvere le dispute e rafforzare la cooperazione tra i popoli. Anche in passato ne sono esistite diverse forme, sempre preferibili al sovranismo nazionalista, che rifiuta la parità di diritti di tutti i Paesi. Il modello cinese è orientato a favorire i commerci internazionali e non ha mai imposto a nessuno il suo sistema politico o costretto altre nazioni a investire in Cina o a vendere a Pechino risorse preziose. La Cina non propone i suoi modelli multilaterali a condizione di smantellarne altri; piuttosto propone iniziative in aggiunta a quelle esistenti».

Pensa che l’Onu sia un’istituzione “superata” o è possibile riformarla per renderla di nuovo centrale nei rapporti internazionali?

«C’è consenso sulle riforme necessarie, prima tra tutte far confluire migliaia di programmi in pochi settori più efficienti e meglio coordinati. Ma il cambiamento sarà possibile solo se i governi decideranno in tal senso e non cambieranno idea alle prossime elezioni politiche. D’altra parte, chi considera il multilateralismo e le decisioni collettive sui beni comuni dell’umanità come qualcosa di “superato”, finora non ha trovato un metodo migliore, dato che i nazionalismi e i sovranismi generano conflitti e non hanno mai risolto le grandi crisi globali».

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