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Istanbul, nella piazza che chiede giustizia

L’arresto del sindaco Imamoğlu, principale oppositore di Erdoğan, ha scatenato le proteste dei giovani, pronti a farsi arrestare per contestare l’autoritarismo

«Di questi tempi un post sbagliato sui social basta per essere arrestati, figurarsi scendere in piazza contro il diktatör Erdoğan»: Gül, 24enne da poco laureata in Sociologia, lo chiama così il presidente-padrone della Turchia, commentando la dura repressione dei suoi coetanei che hanno scelto di invadere le strade di Istanbul, e di tante altre città in tutto il Paese, dopo il clamoroso arresto, lo scorso 19 marzo, di Ekrem Imamoğlu, popolare sindaco della metropoli sul Bosforo.

Il principale oppositore di Erdoğan, che aveva da poco ufficializzato la decisione di candidarsi alle presidenziali del 2028, è accusato tra l’altro di “sostegno a un’organizzazione terroristica armata”, oltre che di aver truccato una gara d’appalto e avere accettato delle tangenti. Accuse che lui ha fermamente rigettato e contro cui tantissimi cittadini da settimane protestano in modi diversi: manifestando il sostegno al percorso politico di Imamoğlu – in quasi quindici milioni sono andati alle urne delle primarie del suo partito, il Chp, per rilanciarne la candidatura alla presidenza – o boicottando le aziende e i media legati in vario modo al potere. E poi c’è chi, regolarmente, torna per le strade a gridare il suo dissenso, a cominciare da centinaia di migliaia di giovani e giovanissimi. «La magistratura che ha deciso l’arresto di Imamoğlu è corrotta: vogliamo che sia rispettata la volontà del popolo», afferma Ayşe, studentessa di Comunica­zione unitasi a un corteo partito dall’Università di Istanbul, uno dei centri nevralgici della protesta.

Questi ragazzi sono ben consapevoli di ciò che rischiano esponendosi, ma sono convinti di essere di fronte a «un momento cruciale per la Turchia». Una consapevolezza che accomuna anche chi decide di restare nelle retrovie, ma osserva con partecipazione silenziosa il rapido precipitare degli eventi, tra tv censurate e arresti a raffica: quasi 2.000 persone – studenti e accademici, giornalisti e personalità dello spettacolo – sono state fermate e circa 300 di loro sono state incarcerate in attesa del processo. Un giro di vite percepito come un segno lampante dell’erosione sempre più smaccata dello Stato di diritto. E così capita che la parola d’ordine delle manifestazioni – “Adalet!”, “giustizia!” – si alzi a sorpresa anche lontano dalle piazze, magari in un vagone della metropolitana: e allora qualcuno istintivamente si unisce al richiamo battendo a ritmo le mani in un gesto complice. Altri stanno in silenzio, forse per indifferenza, forse per timore. Il biasimo, se c’è, non è esibito.

D’altra parte, l’esasperazione è condivisa in questa Istanbul che appare sfregiata. Prima di tutto, dalla militarizzazione totale, a cominciare da quella piazza Taksim che di solito è il cuore pulsante della metropoli e che oggi, transennata e presidiata dai poliziotti, è avvolta da una calma surreale. Ma la città subisce i contraccolpi di questa crisi in tanti modi: «La svalutazione della lira ci sta mettendo in ginocchio, l’economia va male, il turismo ne risente», si lamenta Mehmet, che guida il suo taxi sulle rive del Corno d’Oro. «Di solito nei giorni di festa abbiamo il pienone, invece quest’anno durante il bayram era mezzo vuoto», aggiunge facendo riferimento all’Eid al Fitr, la conclusione del mese sacro islamico di Ramadan. «Il diktatör – anche lui usa questa espressione – per smorzare le proteste ha deciso di prolungare da tre a nove giorni le chiusure legate alle celebrazioni. È furbo, e farà di tutto per non lasciare il potere».

Una convinzione diffusa anche tra chi non è interessato alla politica. Il progressivo smantellamento dei contrappesi democratici portato avanti in questi anni è visto come un dato di fatto: i sostenitori del presidente lo considerano una necessità per contrastare le presunte “minacce interne” e mantenere forte lo Stato in un contesto di grave instabilità regionale. Ma l’equilibrio, oggi, appare più precario che mai. Da parte sua il governo ha affermato che la campagna di boicottaggio dei marchi collegati al presidente non solo mette a rischio la tenuta economica del Paese ma rappresenta un movimento di «odio e discriminazione» che alimenta «ostilità». Di certo, mentre il Chp chiede elezioni anticipate, il clima è quanto mai teso e l’opinione pubblica divisa. C’è chi arriva addirittura a paventare il rischio di un conflitto civile tra “due Turchie” che non si riconoscono più a vicenda. La situazione è più complessa di così, e le variabili molteplici, ma è vero che la polarizzazione si sta acuendo. E il fattore generazionale pesa.

«Chi non salta sta con Tayyp», cantano gli studenti alludendo al presidente-padrone. Urlano la loro rabbia, invocano “democrazia”. E Gül esprime il disagio di tanti giovani per i quali Imamoğlu rappresenta l’unica possibilità di un cambiamento: «Molti ragazzi sono delusi e arrabbiati perché si rendono conto che tutto ciò a cui si stanno opponendo è stato avallato dai loro genitori, che hanno votato per Erdoğan».

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