Un riconoscimento per padre D’Ambra. E per il Pime
È noto, credo, che i missionari sono allergici a onori e onorificenze. A volte però i diplomatici italiani insistono. E così anche padre Sebastiano D’Ambra, 83 anni, una vita nelle Filippine, è Cavaliere dell’Ordine della Stella d’Italia. Le motivazioni generali dell’onorificenza sono naturalmente il proprio impegno nel mondo e la promozione della cooperazione, dei valori e del buon nome dell’Italia. Dal 1984 padre Sebastiano D’Ambra, siciliano e missionario del Pime, anima innumerevoli iniziative di collaborazione e dialogo islamo-cristiano nella città di Zamboanga, nel tormentato sud delle Filippine.
Nel conferire l’onorificenza il primo ottobre scorso, tuttavia, l’ambasciatore Davide Giglio ha tenuto a dire che il riconoscimento va un po’ a tutto il gruppo Pime attivo nel Paese dal 1968. Si potrebbe pensare che nell’unica grande nazione cattolica d’Asia l’attività missionaria sia più facile e tutto fili liscio. Ma i conflitti etnici e politici sono costati anche al Pime tre morti tra il 1985 e il 2011 e molte difficoltà. Per il resto tante iniziative pastorali, educative, di promozione umana, giustizia e pace, nel mare della povertà rurale e urbana in un paese in continua crescita demografica e attanagliato dalla corruzione.
Il conferimento di un’onorificenza da parte del Presidente della Repubblica, per quanto in modo discreto nella sala di ricevimento di un’ambasciata, induce in effetti qualche riflessione sul contributo dell’Italia alla comunità internazionale tramite il personale religioso all’estero. Esso non ha magari la visibilità e nemmeno la potenza della politica, del business, della diplomazia, ma arriva alle frontiere più remote, nei bassifondi più luridi, nelle aree di conflitto dove ai diplomatici è perfino proibito recarsi dai loro stessi governi.
È dalla metà dell’Ottocento, prima dello stato unitario, che migliaia di religiosi italiani percorrono le strade del mondo nel contesto delle cosiddette missioni moderne. Il primo gruppo partì da Milano per l’Oceania nel 1852 approdando su isole della Melanesia, che in futuro sarebbero divenute parte dell’attuale Papua Nuova Guinea. Poi però sarebbe diventata l’Africa la destinazione missionaria per eccellenza sia per gli istituti specificamente missionari (eccetto il Pime che si sarebbe concentrato su India, Cina e Birmania in Asia) che per i religiosi aventi missioni. Dal 1950 circa un po’ tutti anche in America Latina.
A luglio ho lasciato la Papua Nuova Guinea per le Filippine. Non sarò sostituito. Intendo dire che di missionari italiani nel Pacifico non ne arriveranno più. Ne sono rimasti solo sette e due anziane suore sud-tirolesi che preferirebbero il passaporto austriaco. Ancora nel 2005 eravamo lo stesso numero nella sola diocesi di Alotau. Tre vescovi erano italiani. È vero che tutto ha un inizio ed una fine, compreso il movimento missionario moderno sorto nella seconda metà dell’Ottocento, divenuto una grande fiamma nel Novecento, ed ora al tramonto. Un patrimonio di fede e di opere comunque testimone della più grande espansione storica del cristianesimo e della Chiesa. Di missionari ne partono e ne arrivano ancora, ma non più dall’Europa, dall’America o dall’Australia; paradossalmente invece dai paesi che le antiche Chiese hanno evangelizzato. Una nuova epoca missionaria evidentemente, che vediamo solo nascere, ma che speriamo altrettanto prolungata e proficua.
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