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Lavoro femminile? Una promessa di liberazione tradita

Nel libro “Egyptian Made”, la giornalista cinese Leslie T. Chang – che aveva già raccontato il mondo delle lavoratrici cinesi di Dongguan – indaga il mondo del tessile in Egitto, dove società, religione e cultura patriarcale scoraggiano il lavoro delle donne

Si chiamano Riham, Rania, Doaa. Sono donne egiziane che lavorano nell’industria tessile. C’è chi è imprenditrice tessile, chi ha conquistato il ruolo di supervisore in fabbrica, chi è addetta alla sicurezza. Sono le tre principali figure femminili raccontate nel libro “Egyptian Made. Donne, lavoro e una promessa di liberazione” di Leslie T. Chang, appena pubblicato in italiano da Marietti 1820. Ma non sono le uniche. L’autrice, che è una giornalista d’inchiesta americana di origine cinese, non si limita a descrivere come funziona il mondo delle fabbriche di confezioni in cotone in Egitto. Fa molto di più: ci prende per mano, ci fa conoscere la vita delle donne che incontra e ci aiuta a capire le motivazioni dietro alle scelte delle operaie, condizionate dalla cultura, dalla società e soprattutto dalla famiglia.

Per realizzare un’inchiesta così straordinariamente approfondita, dal 2011 al 2016 Chang insieme al marito Peter Hessler e alle loro due gemelle Ariel e Natasha è andata a vivere al Cairo. Ha cercato di imparare l’arabo per avvicinarsi il più possibile alle donne egiziane e ha viaggiato accompagnata da un’interprete fra Alessandria, dove si trovava la fabbrica di Riham Mohamed Galal Seif El-Din, e l’Alto Egitto, dove ha frequentato la Delta Textile Factory a Minya, un’azienda straniera in cui ha conosciuto Rania e Doaa. Può sembrare semplice, ma non lo è: l’Egitto è uno stato di polizia, come racconta l’autrice, ma anche un Paese islamico, dove una donna straniera attira subito l’attenzione. In più Leslie è cinese, quindi la sua presenza non è mai passata inosservata.

I lavoratori migranti in Occidente possono trovare condizioni di lavoro davvero difficili. I casi di sfruttamento sono all’ordine del giorno anche in Italia Ma anche il lavoro  nelle fabbriche dei Paesi in via di sviluppo può essere un inferno. Salari da fame, a volte a rischio della vita. Come è accaduto a Dacca, in Bangladesh, dove nel 2013 nel crollo del palazzo Rana Plaza trovarono la morte oltre mille operai di una manifattura tessile, ospitata al suo interno.

Quando si prende in mano il libro “Egyptian Made”, si immagina di trovare storie simili, di operaie sottopagate e costrette a un lavoro estenuante solo per garantire la sopravvivenza della famiglia. Niente di tutto questo. Per un imprenditore tessile, il primo scoglio in Egitto è quello di trovare delle dipendenti. La discriminazione di genere sembra esistere al contrario. «Le operaie sono migliori degli operai maschi», racconta a Chang un dirigente straniero della Delta Textile Factory. «Gli uomini qui credono di poter andare a fumare o a prendere un caffè quando gli pare e piace, in sostanza sono convinti di non dover fare nulla». Le donne disoccupate non mancano: per ogni egiziana che lavora, quattro stanno a casa. Eppure, reclutare operaie è una fatica. Perché? La cultura dominante è contraria al lavoro femminile non domestico. Se la donna va in fabbrica, è un fallimento del marito. L’idea che due redditi facciano stare meglio la famiglia equivale a dire che lui non è in grado di prendersi cura di moglie e figli. E poi, il mondo fuori dalle mura di casa è pieno di pericoli: insidie maschili sui mezzi pubblici, colleghi e capi lascivi che possono attentare alla virtù femminile. Per non parlare dei mariti scontenti se la moglie rincasa tardi ed è in ritardo sulla cena. La stretta del patriarcato, incarnata dal marito sostenuto da tutto il clan familiare, si allenta solo in caso di povertà e di lavoratrici adolescenti, che hanno come obiettivo quello di guadagnarsi del denaro per contribuire alla propria dote. Senza un adeguato servizio di porcellana, lenzuola e asciugamani, elettrodomestici, mobili e gioielli è impossibile sposarsi. Tante ragazze incontrate da Chang hanno raccontato di voler smettere di lavorare subito dopo le nozze. Spesso è il fidanzato a porre questa condizione e loro sembrano liete di accettarla, anche quando sul lavoro hanno trovato un piccolo spazio di realizzazione personale. Una dimensione che certo non troveranno nella loro vita di spose, dove in molti contesti una ragazza deve barcamenarsi fra le imposizioni del marito e le ingerenze di suocera e cognate. E se osa ribellarsi, lui può sempre vendicarsi prendendo una nuova moglie, perché la poligamia in vigore nel Paese lo consente.

Rania, supervisore temutissima in azienda e di grande bravura professionale, ha un marito e due figli. Frequentandola, però, chang scopre che il lavoro compensa una vita privata fallimentare. Non va d’accordo con il marito Yasser, sposato per volere del padre, che si è portato in casa una seconda moglie dalla quale ha avuto un altro figlio. Di fronte a una simile umiliazione, Rania potrebbe divorziare, ma accetta di vivere in questo triangolo infernale per non perdere i suoi figli che, in caso di separazione, resterebbero al padre. Doaa invece ha sposato un primo cugino, ma il loro rapporto burrascoso – la ragazza ha rischiato di morire, perché il marito l’aveva costretta a partorire in casa per non pagare le spese dell’ospedale – è diventato impossibile da sopportare. Doaa divorzia lasciando le due figlie al marito e cerca la sua strada, grazie al lavoro che le permette di pagarsi gli studi. Una bella soddisfazione, ma al prezzo doloroso della rinuncia alle sue bambine. Riham, ingegnera e imprenditrice, appartiene invece alla sparuta élite culturale ed economica che incoraggia le sue figlie ad affermarsi anche nel lavoro, se lo desiderano.

Leslie T. Chang, che aveva dedicato in precedenza il libro “Operaie” alle lavoratrici cinesi di Dongguan, si domanda spesso come mai un posto di lavoro nell’industria manifatturiera in Cina abbia trasformato delle ragazze di campagna in donne emancipate e autonome, ma questo modello non abbia funzionato allo stesso modo in Egitto. Certo non perché le ragazze egiziane siano meno talentuose e carismatiche. La spiegazione che la giornalista americana finisce per darsi, dopo aver toccato con mano la realtà egiziana per cinque anni, è che «la traiettoria dell’Egitto è determinata dai drammi interni alle famiglie, tra padri e figlie, donne e fidanzati, mariti e mogli». Insomma, è una questione culturale. Il mondo di riferimento di ogni persona è la famiglia, palcoscenico di drammi e faide, che tendono a replicarsi anche nelle relazioni che si instaurano nell’ambiente di lavoro. «La forza della religione nella vita quotidiana in Egitto contribuisce a rendere più difficile il cambiamento», scrive Chang. I valori di un islam sempre più conservatore, assorbito dai lavoratori egiziani emigrati nei Paesi del Golfo e poi riportato in patria, finisce per permeare anche la società cristiano copta. Le persone accettano di restare ancorate ai ruoli che hanno dalla nascita. E così l’Egitto perde un’opportunità fondamentale di crescita economica, che avrebbe valorizzando nel mondo del lavoro la metà femminile della sua popolazione, come altri Paesi hanno fatto.  

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