Il coraggio della semplicità

Il coraggio della semplicità

Nel Centrafrica dilaniato dal conflitto, suor Maria Elena Berini ha deciso di restare a rischio della vita. Se ne sono accorti anche gli Usa che le hanno attribuito il riconoscimento di “Donna coraggio”

 

«Uno di loro si è girato e mi ha detto: “Io ti uccido”. “Puoi uccidermi, sono qui, non ho paura”. Mi ha fissata con sguardo diabolico, ha sbattuto la porta e se n’è andato». Lo racconta senza nessuna enfasi suor Maria Elena Berini. Con una semplicità disarmante che non lascia dubbi: su quello scambio di sguardi, su quelle parole di morte, sulla sua reazione ferma. Non ha certo l’aspetto di un eroe, suor Elena: ma ha quella solidità e quella autenticità, che indicano fedeltà e trasmettono fiducia.

Chissà se lo ha intuito anche Melania Trump quando, lo scorso marzo a Washington, le ha attribuito il prestigioso riconoscimento di “Donna coraggio” (International Women of Courage Award) del Dipartimento di Stato americano, insieme ad altre donne che in tutto il mondo lottano per i diritti, la giustizia, la dignità, la promozione della pace e della riconciliazione.  Proprio quello che fa suor Elena nella sua imperturbabile genuinità: «A Washington, ho detto semplicemente di smetterla di produrre e vendere armi. Mettiamo nelle mani dei giovani strumenti di morte invece di dare loro opportunità di futuro. Per parlare di pace non bisogna esportare armi, ma educazione, cultura e giustizia».

Originaria di Sondrio, 73 anni, religiosa della Congregazione delle Suore di Santa Giovanna Antida Thouret, suor Elena è stata missionaria in Ciad per 35 anni e ora si trova da 11 in Repubblica Centrafricana. Dove, dice, «negli ultimi anni non abbiamo conosciuto pace».

La cittadina in cui vive, Bocaranga, 15 mila abitanti al confine nord-occidentale con Camerun e Ciad, è stata presa di mira più volte dai ribelli. La sua casa, come quella dei cappuccini – e come gran parte delle abitazioni – è stata assaltata e derubata più volte. Ma è diventata anche un rifugio per migliaia di sfollati. Perché lei è sempre rimasta lì – con le sue cinque consorelle di quattro nazionalità (Italia, Camerun, Ciad e Centrafrica) – a testimoniare che una forma di resistenza nonviolenta è sempre possibile. E che la speranza non è mai morta.

Non è stato facile. I ripetuti attacchi a Bocaranga si inseriscono in un contesto di guerra, crisi e caos che attraversano il Centrafrica dal 2013.

Neppure la capitale Bangui sembra più tanto sicura, dopo il riesplodere delle violenze, lo scorso aprile, nel quartiere PK5 a maggioranza musulmana. Qui, il primo maggio è stata nuovamente assaltata la chiesa di Nostra Signora di Fatima ed è stato ucciso don Albert Tougoumalet insieme a 24  fedeli. Questo quartiere – visitato anche da Papa Francesco – è divenuto il luogo-simbolo di incontro-scontro tra varie tensioni e interessi che, nel tempo, hanno assunto anche una pericolosa connotazione religiosa. È quello che avviene in maniera ancora più drammatica nel resto del Paese, dove oggi nessuno sembra capace di controllare il territorio: né lo Stato e le forze dell’ordine, né tanto meno la missione dell’Onu.

E così non si sa più bene chi combatte contro chi: ex Seleka (la coalizione che ha preso brevemente il potere nel 2013), milizie di autodifesa anti-balaka, bande di criminali o gruppi di pastori armati…

«Uno di questi, chiamato 3R (“Retour, réclamation et réhabilitation” ovvero “ritorno, rivendicazione e riabilitazione” – ndr), ha attaccato Bocaranga il 2 febbraio 2017. I miliziani hanno ucciso una trentina di persone e ne hanno ferite molte altre, costringendo gran parte della popolazione a fuggire. Si tratta soprattutto di nomadi peul che si sono vendicati del fatto che gli anti-balaka avevano rubato il loro bestiame».

 

 

I nomadi si erano,  a loro volta, avvicinati alla città per impossessarsi delle terre circostanti che rappresentano ottimi pascoli. A complicare le cose – e a rendere ancora più difficile il cammino di riconciliazione – è il fatto che i pastori sono musulmani mentre le milizie anti-balaka si dicono cristiane, sovrapponendo un elemento etnico-religioso a un conflitto che riguarda essenzialmente la terra e l’acqua. E, più in generale, le grandi ricchezze di uno dei Paesi più poveri al mondo. «Diamanti, oro, petrolio, uranio, legname… Il Centrafrica – dice suor Elena – ha un sottosuolo ricchissimo, per non parlare di terreni e acqua in abbondanza. La vera posta in gioco di questo conflitto sono le risorse del Paese».

Ma chi le controlla oggi? I continui attacchi che avvengono in ogni parte del Paese e che hanno colpito e danneggiato gravemente anche le strutture della Chiesa – spesso le uniche soprattutto nelle regioni più remote – raccontano di un Paese allo sbando. È quello che testimonia anche suor Elena: «Quando i miliziani sono arrivati a Bocaranga, la città non era difesa da nessuno. Le autorità sono le prime a fuggire. E così tutta la popolazione è scappata di nuovo. Se ne sono andati tutti. La città è rimasta praticamente vuota. Noi abbiamo deciso di restare, così come i cappuccini. E più di 250 persone sono venute a rifugiarsi da noi. Hanno fiducia. Si sentono protette. E se noi restiamo pensano che non tutto è perduto».

Quando la situazione sembrava tornata alla normalità e molti avevano fatto ritorno alle loro case, i miliziani hanno attaccato di nuovo il 23 settembre. «Sono arrivati al mattino – ricostruisce la religiosa -, hanno ucciso parecchie persone e hanno ripreso il controllo della città. La gente è fuggita di nuovo e si è rifugiata nelle cittadine più vicine, che distano però dai 100 ai 150 chilometri da fare a piedi. Molti sono venuti nelle nostre strutture. Non sapevamo come i miliziani avrebbero reagito…».

Questa volta, però, è stato il governo a prendere l’iniziativa e a dare un ultimatum di tre giorni ai ribelli. Le forze dell’Onu si sono preparate a intervenite. «Il comandante – ricorda suor Elena – è venuto a dirci che dovevamo lasciare la missione. Tutta la gente è scappata e si è riversata alla base Onu dove c’erano almeno duemila persone. Anche noi abbiamo percorso a piedi i sette chilometri che ci separavano dalla base. Ci hanno fatto dormire fuori per terra in una tenda sgangherata».

«Il giorno dopo – continua -, i soldati Onu con un elicottero hanno cominciato a bombardare le postazioni dei ribelli e ad andare di casa in casa per stanarli. Alla sera ci hanno detto che potevamo tornare in missione perché Bocaranga era stata liberata. Con un ragazzo in moto sono andata a casa, ho preso la macchina che avevo nascosto e sono tornata a prendere le altre suore e il padre. Quando siamo rientrate, abbiamo visto che i militari delle Nazioni Unite avevano sfondato il cancello della missione dei cappuccini e le porte della casa, alla ricerca delle armi dei ribelli».

 

 

Attualmente c’è una relativa calma anche se, dice suor Elena, «non si può mai sapere…». Già nel 2014, sia le religiose che i cappuccini erano stati attaccati dalle milizie Seleka che, dopo aver conquistato il potere, erano state messe in fuga. «Venivano a nord, verso la frontiera del Ciad. I miliziani sono entrati in casa, hanno sparato sui muri e ai nostri piedi, hanno fatto irruzione nelle stanze, buttando tutto in aria e portando via quello che potevano. In quei giorni avevamo più di mille persone rifugiate nelle scuole».

Allora come oggi, suor Elena, con le sue consorelle, si è rimessa al lavoro, con tenacia e dedizione, per cercare innanzitutto di offrire un’istruzione ai ragazzi del posto. «Noi abbiamo riaperto subito la scuola per dare un esempio e dire che si poteva tornare a vivere – prosegue -. L’educazione è la nostra priorità. È per questo che siamo qui e che resteremo». Ma, aggiunge, «quello che mi colpisce veramente è il coraggio della gente che ricomincia ogni volta da zero. Fuggono e tornano e, anche se hanno perso tutto, trovano il modo di andare avanti».

È quello che hanno sempre fatto anche loro. Le religiose gestiscono  una grande scuola con 1.300 studenti. Cominciata con le elementari, un po’ alla volta, nell’arco di una decina d’anni, ha visto aggiungersi le medie e quindi il liceo. «Cerchiamo di dare la priorità alle bambine, anche se la scuola è mista – dice la suora – perché ovviamente sono le prime a essere escluse dal sistema scolastico. Per questo abbiamo creato anche un piccolo internato che accoglie 26 bambine che provengono dai villaggi più lontani». Molte altre vengono alloggiate presso parenti che sono in città. Ma la continua instabilità ha reso difficile per tutti garantire un percorso scolastico regolare in questi ultimi anni.

Le religiose però non si sono arrese. E hanno continuato a seguire anche le molte scuolette sparse per la savana, a cui cercano di garantire soprattutto un minimo di formazione per gli insegnanti. Dal canto loro, i cappuccini, oltre alla pastorale, hanno creato una grande falegnameria, per garantire anche una formazione professionale, e un centro catechetico, che però da quattro  anni è chiuso ed è diventato un luogo di accoglienza per gli sfollati.

«La Chiesa in Centrafrica è generalmente molto ben vista – sostiene suor Elena – perché ha fatto moltissimo per aiutare la gente. Spesso senza fare distinzione, ma aiutando chi sta peggio».

Le suore, ad esempio, stanno accogliendo anche due famiglie musulmane che hanno salvato: «Non possono rimanere al villaggio, non si sentono al sicuro e non vogliono andare in Ciad perché dicono che la loro terra è questa. Ma non è facile rimanere per la spirale di rancori e vendette che si è innescata e che ci vorrà molto tempo per riassorbire. Anche per questo abbiamo dovuto aiutare il nostro autista musulmano a fuggire in Ciad con la famiglia. La gente non è pronta ad accogliere i musulmani. Ci sono stati troppi massacri. Da una parte come dall’altra».

Anche per questo la Chiesa sta cercando di portare avanti un faticoso cammino di pacificazione. Ma non è facile, ci vuole tempo. Il cardinale Dieudonné Nzapalainga, insieme all’imam Kobine Layama e al pastore protestante Philippe Sing-Na, ha creato una “Piattaforma interreligiosa” per promuovere il dialogo e la riconciliazione. Un segno importante per dire che le religioni possono operare innanzitutto per il bene e non devono mettere le persone le une contro le altre.

Quanto a suor Elena, lei è assolutamente convinta che «bisogna ricominciare dai bambini e bisogna ricominciare dalla scuola, dall’istruzione e dall’educazione per promuovere una riconciliazione vera, che tocchi il cuore delle persone, che curi le ferite dell’anima. Solo così si potrànno costruire pace duratura e giustizia per tutti. Mandela diceva sempre che l’arma più potente che può cambiare il mondo è l’istruzione».