Giù le mani dalla terra

Giù le mani dalla terra

Un missionario laico in prima linea per difendere un patrimonio di terra e acqua gravemente a rischio. Un esempio di come si stia mettendo in pratica la “Laudato Si’”. Pagando in prima persona

La Papua Nuova Guinea è un tesoro straordinario di biodiversità. Composta da oltre 600 isole, è dotata di importanti risorse naturali, tra cui la terza foresta pluviale più grande al mondo, in cui vivono centinaia di comunità umane, nonché fauna selvatica, oltre duemila uccelli diversi e 20 mila specie di piante. L’82% della popolazione vive in aree rurali e il 40% affida la propria sussistenza ai soli frutti della natura.

In questo “paradiso” si è scatenata una vera e propria corsa per l’appropriazione delle terre e lo sfruttamento delle foreste. Ogni anno 3 milioni di metri cubi di legno grezzo lasciano il Paese. I tronchi, nella maggior parte dei casi, finiscono in Cina, il principale partner commerciale per il mercato del legname. Le concessioni forestali, però, non bastano. Da più di dieci anni le compagnie di taglio del legno hanno cercato di sfruttare anche il patrimonio terriero delle comunità locali. Un’impresa relativamente facile in un Paese dove, fino a poco tempo fa, il 97% della terra era di proprietà comune, sotto il diritto consuetudinario, controllata dai gruppi tribali.

Nelle aree deforestate nascono piantagioni di olio di palma. Le compagnie guadagnano prima tagliando la foresta e poi piantando gli alberi della palma. Nel 2012 le piantagioni di olio di palma coprivano già circa 136 mila ettari in cinque province della Papua Nuova Guinea. Secondo il report On our Land (“Sulla nostra terra”) del centro studi californiano The Oakland Institute, tra il 2003 e il 2012 più di 5 milioni di ettari, pari al 12% del Paese, sono passati nelle mani di compagnie private. Un vero e proprio caso di land grabbing (appropriazione della terra), avvenuto attraverso gli Special Agricultural Business Leases (Sabl), un sistema di accordi fra  governo e compagnie private. A oggi ne sono stati stipulati 300 e la maggior parte di essi prevedono una concessione per 99 anni dei terreni per lo sviluppo di attività agricole. Il 75% degli accordi coinvolge società estere, molte delle quali malesi.

A partire dall’agosto 2015, l’arcidiocesi di Rabaul, nella Provincia della Nuova Britannia Orientale (nell’Est del Paese), ha cominciato a interrogarsi su come mettere in pratica la  Laudato Si’, l’enciclica sul creato diffusa da Papa Francesco il 18 giugno di quell’anno. L’arcivescovo, l’italiano monsignor Francesco Panfilo, ha pubblicato una lettera pastorale in cui ha annunciato l’impegno della Chiesa in tre ambiti: la difesa del diritto alla terra delle comunità locali, la costruzione di abitazioni per famiglie povere e la sensibilizzazione circa un progetto di coltivazione di palma da olio nel distretto di West Pomio, il Sigite Makus Palm Oil Project, portato avanti dalla compagnia malese Rimbunan Hijau.

Douglas Tennent

Per rendere concreto questo impegno, l’arcidiocesi ha deciso di avvalersi della collaborazione di un missionario laico proveniente dalla Nuova Zelanda, l’avvocato Douglas Tennent. Il 9 giugno del 2017, però, dopo diversi mesi di lavoro, il dottor Tennent si è visto recapitare dall’ufficio immigrazione del governo un’ingiunzione a lasciare immediatamente il Paese e la revoca del permesso di ingresso in Papua Nuova Guinea. La motivazione? Per «essersi coinvolto in questioni sensibili legate al diritto alla terra nella Provincia della Nuova Britannia Orientale». Dopo due mesi, grazie alla ferma presa di posizione  dell’arcidiocesi e al clamore internazionale  suscitato dalla vicenda, a Tennent è stato permesso di rientrare in Papua Nuova Guinea. Gli abbiamo chiesto cos’è accaduto, ma soprattutto come l’impegno per la difesa delle comunità locali sta continuando.

Come è cominciato il suo lavoro con l’arcidiocesi di Rabaul?

«Sono arrivato in Papua Nuova Guinea per la prima volta nel 1984. Allora ero un missionario anglicano, ma ho lavorato nelle carceri con la Chiesa cattolica nella diocesi di  Mount Hagen. Dopo sette anni e mezzo sono tornato nel mio Paese, la Nuova Zelanda, dove mi sono iscritto all’università per studiare legge. Allora ero ancora anglicano. Ma avevo avuto una profonda immersione in ambito cattolico che mi aveva molto segnato. Inoltre la Chiesa anglicana in Nuova Zelanda stava cambiando fisonomia e modo di esprimersi. Ad esempio, non si diceva più “Padre, Figlio e Spirito Santo”, ma “Creator, Redeemer e Giver of Life” (“Creatore, Redentore e Datore di vita”, che nella lingua inglese sono sostantivi neutri, ndr). A quel punto sono diventato cattolico».

Quando è tornato in Papua Nuova Guinea?

Nel 2014, come amministratore diocesano a Rabaul. Sapevo che c’erano molti problemi legati alla terra. Un giorno l’arcivescovo Francesco Panfilo è tornato dal distretto di Pomio. E mi ha detto: “Dobbiamo prendere le difese della gente”. Conoscendo l’importanza dell’azienda malese che operava in zona, la Rimbunan Hijau, gli ho detto: “Andiamo a sfidare un gigante”. Più o meno lo sapeva anche lui, ma quando si impegna per qualcosa non si arrende. Siamo tornati a Pomio per valutare la situazione  e abbiamo cominciato a muoverci. Non credo che all’inizio l’arcivescovo fosse consapevole del potere e dell’influenza di Rimbunan Hijau. Questo è diventato chiaro solo quando io sono stato espulso».

Che cosa vi ha spinto su questo terreno così difficile?

«L’arcivescovo era andato nel distretto di Pomio in un posto chiamato Kaiton, per una delle sue visite. Come al solito aveva celebrato la Messa e i sacramenti, poi si era fermato a parlare con la gente. Una madre con un bambino lo ha avvicinato e gli ha chiesto:  “Che futuro c’è per noi?”. La stessa domanda della Laudato Si’: “Che mondo lasciamo ai nostri figli?”. Questa domanda lo ha colpito. Ha scritto ai politici senza ottenere risposta. Quindi è nata l’idea di avviare una negoziazione con Rimbunan Hijau».

Cosa stava succedendo per togliere la speranza di futuro a quella gente?

«Il taglio indiscriminato della foresta per fare spazio alla palma da olio. Quindi il taglio completo, non selettivo. Con l’erosione del suolo in molti punti. E la perdita anche dei corsi d’acqua, sporchi di fanghiglia, inquinati di fertilizzanti per la palma da olio. Quasi 70 mila ettari. Le due compagnie operative in questa zona, tra l’altro, non aderiscono come tutte le altre all’organismo nazionale di controllo sulla diffusione sostenibile della palma da olio, un’organizzazione con rigidi criteri di controllo ambientale che ha aiutato molto anche me quando mi sono mosso per la negoziazione. Delle quattro aree previste dall’accordo con il governo, Rimbunan Hijau ne ha penetrate tre. Nella quarta la popolazione pone come condizione il taglio selettivo e la riforestazione».

Ma quest’ultima condizione non dovrebbe essere prevista dalla legge piuttosto che richiesta dalle comunità locali?

«Purtroppo il sistema degli Special Agricultural Business Leases (Sabl) non prevede alcun regolamento e limitazione. Le terre ancestrali vengono cedute al governo dalle comunità per legalizzarle con titolo ufficiale. Vengono poi ridate ai proprietari originari con la possibilità e i mezzi legali per “sviluppare” queste terre, cosa che però avviene attraverso l’ingresso di queste grandi compagnie, di fronte alle quali la gente è molto debole. La conclusione è che la comunità locale riceve poco o nulla di ciò che viene eventualmente pattuito: scuole, ospedali, strade, servizi essenziali in cambio dell’uso della terra. Pomio è una zona lontana e abbandonata. Senza una vera autorità statale. Per questo l’arcivescovo dà tanta attenzione a quest’area, su cui vivono circa 70 mila persone. L’obiettivo dichiarato dai Sabl è portare sviluppo, che in sostanza vuol dire servizi. Ma basta andare all’ospedale pubblico: non c’è acqua per lavarsi, non c’è elettricità, e i pazienti devono essere portati di peso a duecento metri di distanza per poter andare alla toilette. La compagnia malese che ha ottenuto la concessione non aiuta in nessun modo».

Che linea ha scelto l’arcidiocesi?

«Abbiamo chiesto la rescissione dell’accordo stipulato nel 2010 e la disponibilità da parte di tutti – aziende private, governo e comunità locale – a cominciare una nuova negoziazione entro il 30 luglio 2018. Abbiamo avuto il primo incontro con Rimbunan Hijau il 31 maggio 2016, in cui abbiamo sottoposto loro un piano preciso di circa 25 mila parole. La rinegoziazione era partita. Poi però hanno cambiato idea. L’arcivescovo ha minacciato di rendere tutto pubblico. Abbiamo consultato un legale, che ci ha suggerito di avanzare un esposto. In quel modo il tribunale avrebbe ordinato una mediazione, che avrebbe costretto la compagnia a sedersi al tavolo. Questo è quello che abbiamo fatto ed è lì che sono cominciati i problemi, che hanno portato alla mia espulsione dalla Papua Nuova Guinea, poi risultata solo temporanea, per fortuna. Ce l’avevano naturalmente in prima istanza con l’arcivescovo, ma sentendosi alle strette e non potendo espellere un arcivescovo si sono scagliati contro di me nella speranza di bloccare il corso delle cose. Mi hanno accusato di aver violato i limiti del mio visto di permanenza come “religious worker” (operatore religioso) per essermi coinvolto in questioni di terra nel distretto di Pomio. Ma ho potuto facilmente controbattere che come amministratore dell’arcidiocesi il 95% del mio lavoro è connesso a questioni di proprietà e uso della terra. Naturalmente ho invocato il mio diritto all’assistenza legale ma, nonostante appelli e proteste, dopo tre giorni mi sono ritrovato fuori dal Paese».

La popolazione era con voi?

«La maggior parte ci sosteneva. L’arcivescovo ha fatto un grande lavoro per unire la gente, che era divisa in tre gruppi: il più radicale voleva Rimbunan Hijau fuori del tutto, un altro era per la rinegoziazione e un altro piccolo gruppo era completamente asservito agli interessi della compagnia. L’arcivescovo è riuscito a tenere aperto il dialogo con il gruppo radicale».

Che cosa sperate di ottenere?

«La rinegoziazione punta a ristabilire una partnership più equa e una giusta considerazione nei confronti della popolazione per l’uso della terra. L’accordo attuale prevede il pagamento di 14,40 kina (3,60 euro) per ettaro all’anno da parte della compagnia per l’usufrutto. I primi anni hanno pagato solo 4 kina (1 euro) per ettaro, negli ultimi due anni più nulla. Un’altra compagnia nel distretto di Kimbe paga 75 kina (18,75 euro) per ettaro l’anno e in più un 10% di royalty. Vogliamo inoltre una valutazione professionale del rischio ambientale e misure precise per contrastare il danno ecologico. E che la compagnia provveda alle infrastrutture e alla riabilitazione dell’ospedale e della scuola, come si fa sempre in questi casi».

Come siete stati guidati dalla Laudato Si’?

«Nella sua lettera pastorale e durante la mediazione, l’arcivescovo si è riferito all’enciclica, che a un certo punto dice che in concomitanza con questi grandi progetti la gente del posto deve sedere al tavolo delle trattative. E anch’io quando ho sottoposto il testo di mediazione ho citato l’enciclica in modo estensivo. Il capo dell’ufficio legale di Rimbunan Hijau, un cattolico malaysiano, per altro, è stato molto critico per questo mio uso massiccio dell’enciclica, ma ha dovuto mandar giù il rospo per tutto il corso della mediazione. Mi ha detto che in un viaggio in Australia l’ha comprata. Non so poi se l’abbia letta».

Quali pericoli correte?

«Beh, ho dovuto essere molto prudente. È noto che un margine di rischio personale, anche fisico, c’è in questi casi. Ovunque nel mondo. Siamo solo a metà strada col nostro lavoro a Pomio. Rimbunan Hijau sta facendo molte cose che sono contro la giustizia. Io ammiro la Chiesa cattolica perché ha una posizione chiara, sostanziale, articolata e antica sulle questioni sociali».

Perché non è stato il governo a fare qualcosa?

«L’arcivescovo ha una risposta molto semplice: la gente ha coinvolto me perché non si fida dei suoi politici. Sono compromessi. Ricevono soldi per sé o per le spese ministeriali».

Gli accordi Sabl con compagnie private sono tutti gestiti male?

«No, una parte di essi funziona abbastanza bene. Dipende da chi è in carica. Durante la nostra trattativa di mediazione, l’arcivescovo ha citato altri accordi che potrebbero rappresentare un modello da seguire. Ha detto chiaramente a Rimbunan Hijau che piace solo ai politici e non alla gente, e che deve cambiare atteggiamento se vuole recuperare la stima della comunità. D’altra parte tutta la vicenda, e in particolare la mia espulsione, ha attirato l’attenzione dei media internazionali. Non possono più nascondersi. Vanimo, East Sepik, New Ireland e Western sono le province più interessate dal taglio del legname. La gente deve essere aiutata a valutare in modo più critico e maturo l’impatto di questi progetti».

La Laudato Si’ è difficile da mettere in pratica?

«Per me le due encicliche chiave della Chiesa cattolica sono la Pacem in terris e la Laudato Si’. Sono state una risposta a problemi precisi: per Giovanni XXIII il rischio di guerra nucleare, soprattutto al momento della crisi dei missili a Cuba; per Francesco la crisi del clima. Per questo sono documenti così efficaci. Perché rispondono a un’emergenza evidente e planetaria. Sono teologici, ma anche molto pratici e contestuali. Siamo di fronte a due grandi sfide, oggi. Una è quella del clima. L’altra è quella dell’islam nei confronti dell’Occidente. Io credo che Francesco abbia il tipo giusto di personalità anche per un risultato positivo in Medio Oriente, a partire dal dialogo tra ebrei e palestinesi».