«Noi giovani cristiani d’Arabia»

«Noi giovani cristiani d’Arabia»

Negli Emirati, che attendono la visita del Papa, le nuove generazioni di cattolici affrontano sfide cruciali, dai diritti limitati al rapporto con l’islam. Ma il loro attivismo sta delineando il volto di questa Chiesa migrante

 

da Abu Dhabi (Emirati Arabi Uniti)

Do not be afraid, “Non abbiate paura”, recita la scritta sulla maglietta blu di Alex. A fianco, spicca in caratteri colorati la sigla “Acyc”, che sta per “Arabian catholic youth conference”, il più grande raduno di giovani cattolici della Penisola arabica, tenutosi lo sorso ottobre nell’emirato di Ras Al Khaima. Alex c’era, insieme ad altri 1.500 ragazzi provenienti da tutta la regione: Emirati Arabi Uniti, Qatar, Bahrain, Kuwait, Oman e anche dalla Giordania, «arrivati per incontrarsi, confrontarsi e ascoltare la testimonianza di persone la cui vita è cambiata grazie alla fede», racconta.

Parla con un mix di entusiasmo e orgoglio, visto che della tre giorni è stato tra gli organizzatori, insieme agli altri membri del gruppo dei “Giovani adulti” delle diverse parrocchie degli Emirati. È una delegazione di questi attivisti a darmi il benvenuto nel centro parrocchiale della cattedrale di Saint Joseph, ad Abu Dhabi, dove Papa Francesco sarà accolto nel corso della sua visita nel Paese, dal 3 al 5 febbraio. Un’occasione per abbracciare questo angolo di Chiesa vissuto come “lontano” e un po’ marginale, e invece vitale e cruciale per le sfide che vive ogni giorno: un milione di cattolici immigrati da ogni parte del mondo che qui, nonostante la precarietà, stanno costruendo una comunità solida, dall’identità plurale eppure sempre più chiara e definita. Abitudine alla diversità, protagonismo dei laici, ricchezza spirituale, concretezza, tanto per dire alcuni dei tratti salienti. E i giovani sono quelli che, a questa comunità, sono pronti a dare un’impronta forte. Perché a questa terra così particolare e spesso dura- in cui i privilegi sono riservati ai pochissimi locali, timorosi di essere sovrastati da una comunità di espatriati che numericamente pesa più di dieci volte tanto – loro, nonostante tutto, sentono di appartenere.

Alex Mendonca, la cui famiglia proviene da Goa, in India, è nato ad Abu Dhabi, è stato battezzato in questa cattedrale, qui ha frequentato il catechismo e ha servito come chierichetto per dieci anni. «Finite le superiori, sono andato in India per frequentare l’università, ma una volta laureato in ingegneria sono tornato, ho trovato un buon lavoro e mi sono di nuovo stabilito qui», racconta. «Nel 2011, dopo aver partecipato alla Giornata mondiale della gioventù di Madrid, ho capito che volevo impegnarmi per la Chiesa, così ho cominciato a fare catechismo ai ragazzi e poi sono approdato ai Giovani adulti».

In parrocchia, i gruppi giovanili sono numerosi: Jesus Youth, Single for Christ, El Shaddai, Come alive… «Si tratta però di realtà nate in uno specifico contesto geografico, dall’India alle Filippine, e i cui membri, di conseguenza, generalmente rispecchiano la stessa appartenenza etnica. Il team dei Giovani adulti, invece, è l’unico espressamente multiculturale, e riunisce anche, come un ombrello, rappresentanti attivi nelle rispettive comunità». Chiunque, tra i 18 e i 35 anni, può farsi avanti per mettersi al servizio della parrocchia, attraverso i ministeri più tradizionali – c’è chi legge in chiesa e chi canta in uno degli innumerevoli cori – o quelli più specifici delle comunità del Golfo, come il servizio d’ordine per le Messe. Qui, infatti, la partecipazione alle celebrazioni è massiccia – la Chiesa è anche un po’ casa, e il contesto musulmano spinge all’approfondimento della propria spiritualità -, mentre gli spazi sono limitati in proporzione alle esigenze. Basti pensare che, solo ad Abu Dhabi, i cattolici sono circa centomila, e i luoghi di culto in cui possono praticare la loro fede sono attualmente tre: due nello stesso compound della cattedrale e uno nel distretto industriale di Musaffah, mentre a dicembre è stata posta la prima pietra della nuova chiesa di Ruwais, che accoglierà i lavoratori impiegati nella zona petrolifera.

Le autorità degli Emirati sono tolleranti e ultimamente concedono con una certa disponibilità i terreni per nuovi spazi riservati alle diverse confessioni cristiane, segno di un’apertura che si riflette anche nella scelta – storica – della sede per la celebrazione della grande Messa del Papa: non l’interno di un complesso parrocchiale, come da regola locale, ma il mega stadio della cittadella sportiva di Abu Dhabi.

Tuttavia, gli edifici disponibili restano largamente insufficienti per le necessità pastorali quotidiane. E così, in parrocchia bisogna organizzarsi: nei giorni festivi – il principale è il venerdì, per adeguarsi al calendario lavorativo locale – le celebrazioni si susseguono a ritmo serrato, dalla mattina presto fino alla sera. C’è la Messa in malayalam e quella in tagalog, quelle in konkami, urdu, arabo, inglese… I ragazzi del servizio d’ordine accolgono i fedeli e agevolano il flusso di persone in chiesa finché c’è spazio, mentre il resto dei parrocchiani è invitato a sistemarsi nel cortile dove è possibile seguire il rito attraverso i maxischermi. E poi, nelle diverse sale dei centri parrocchiali, si tengono le lezioni di catechismo – ogni week end vi partecipano mille ragazzi – e gli incontri di preghiera dei vari gruppi: per le coppie e le famiglie, di approfondimento biblico, per i membri della Legione di Maria.

«Noi giovani siamo impegnati nella pastorale ma organizziamo anche tanti eventi sociali, per promuovere i rapporti umani e un senso di familiarità», racconta Joyce Pereira, largo sorriso contagioso e energia che emerge da ogni gesto. «Qui far sentire le persone accolte è fondamentale, perché cadere nella solitudine è facile». Esperta di computer, Joyce è arrivata da Mumbai un anno e mezzo fa per lavorare alla Municipalità di Abu Dhabi. Da subito è si è buttata nelle attività di Saint Joseph: «Abbiamo organizzato la Giornata locale della gioventù sul modello di quella mondiale, proiettato le partite della coppa del mondo di calcio come occasione per incontrarci, dato una mano per il festival di Natale che ogni anno raccoglie migliaia di partecipanti, tra stand delle diverse comunità, spettacoli dal vivo e una grande lotteria».

E poi, naturalmente, c’è stata la tre giorni di Ras Al Khaima: un happening fatto di momenti di preghiera, festa – con l’esibizione di gruppi di danza e christian band selezionate a livello locale nei mesi precedenti l’evento – e ascolto di testimoni speciali, dal britannico John Pridmore, ex malavitoso che ha raccontato la sua storia di conversione, alla nota blogger suor Anne Flannagan, all’autore e life coach filippino JC Libiran.

Esperance Mendonca, che nella vita fa la maestra d’asilo occupandosi dei bimbi con bisogni speciali, era nella commissione liturgica della Conferenza. «L’organizzazione ci ha impegnato molto – spiega – ma il risultato è stato sorprendente. Non solo per la straordinaria partecipazione, ma per come i giovani sono riusciti davvero a dimenticare le loro differenze e le difficoltà di ogni giorno per aprirsi e sentirsi tutti vicini, nel nome del Vangelo». E non è poco, visto che di prove quotidiane, da queste parti, i ragazzi ne devono affrontare tante, a cominciare dalla costante precarietà.

Dubai, parrocchia di Saint Mary. Dagli altoparlanti echeggia la voce del sacerdote che celebra la Messa serale in inglese, e per attraversare il cortile occorre farsi strada tra i fedeli, in gran parte filippini, intenti a seguire il rito dall’esterno della chiesa, che è stracolma. In una delle sale parrocchiali mi aspetta un gruppo di giovani volontari basati nella città più sfavillante (e contradditoria) degli Emirati.

Selwyn D’Souza, aiuto catechista per i ragazzini, ha trascorso qui gli ultimi 17 anni della sua vita. Tenendo conto che ne ha in tutto 23, si potrebbe pensare che senta il Golfo come casa sua a tutti gli effetti. E invece, sebbene viva una vita soddisfacente e abbia un gruppo di amici su cui può contare, ammette: «Non nutro un senso di appartenenza verso questa terra. Come potrei, se non ho la possibilità di costruirmi un futuro da vero cittadino?». Le regole degli Emirati sono ferree: nessun immigrato né i figli di famiglie straniere possono acquisire la cittadinanza (e anche l’acquisto di immobili è rigidamente limitato a determinate aree designate dal governo). Questo significa vivere nell’insicurezza costante, come spiega Michelle Fonseca, che è nata a Dubai e qui ha ricevuto tutti i sacramenti. «Quando i ragazzi arrivano a 18 anni inizia l’ossessione del visto», spiega. «Per ottenerlo, o ci si iscrive all’università, che è molto costosa, o si trova un’occupazione, e con la crisi degli ultimi anni questo non è per nulla scontato. Senza contare che qui tutto gira intorno al lavoro, i ritmi sono sempre frenetici e si ripercuotono negativamente sulla vita famigliare».

Tensioni che complicano le difficoltà attraverso cui passa normalmente qualunque adolescente. Eugene Pereira, coordinatore del ministero dei Giovani adulti per il vicariato dell’Arabia del Sud, ne è convinto: «I ragazzi hanno bisogno di qualcuno che li accetti così come sono per imparare ad accettare se stessi. Non vogliono predicatori che dicano loro cosa fare, ma testimoni che mostrino quanto il Vangelo abbia a che fare con la loro vita». E chiedono autenticità. Per questo – spiega – la Chiesa del Golfo cerca di creare occasioni in cui i giovani possano porre domande concrete, a volte scomode, alle guide della comunità cattolica – esperti, sacerdoti, vescovi – che non si tirino indietro dal confronto. «I ragazzi sono diretti, toccano tutti i temi che sentono più importanti: la sessualità e il matrimonio, il ruolo delle donne nella Chiesa, la piaga degli abusi sui minori. Un adolescente di recente mi ha chiesto: “Ho un amico gay e vorrei portarlo in parrocchia: c’è qualche problema?”».

Mentre si cerca il proprio posto e la propria identità all’interno della comunità cristiana, fuori dalla parrocchia si è chiamati ogni giorno a relazionarsi con la presenza maggioritaria dell’islam. A volte le esperienze sono positive: «Se si rispettano le regole qui si viene trattati bene», è in sintesi il pensiero di molti giovani che ho incontrato. Il confronto quotidiano con l’islam, oltre che nella cultura locale, avviene di solito sul posto di lavoro: c’è chi racconta di avere conversazioni cordiali con i colleghi sulle rispettive feste religiose e chi propone loro i biglietti della lotteria per la parrocchia.

Prem Kevin Moras, 27enne segretario della chiesa di Musaffah, ricorda che «durante il mese sacro islamico di Ramadan alcune parrocchie offrono l’iftar, la cena per la rottura serale del digiuno, a centinaia di musulmani, in particolare gli operai che vivono nei labour camp, i quartieri ghetto per i lavoratori migranti». Un’iniziativa nata anche per impulso dei giovani cattolici, già abituati a portare cibo ai poveri musulmani nel corso del loro mese sacro.
Le esperienze, tuttavia, non sono sempre positive. «In ufficio mi creano problemi ogni volta che sanno che devo venire in chiesa», afferma Imran William, che con alcuni amici ha fondato il gruppo dei giovani pakistani cattolici di Dubai. In effetti, confermano anche gli altri, a volte se il datore di lavoro è un musulmano (e magari non un autoctono degli Emirati) per i cristiani la vita può essere difficile.

Le sfide, al sole cocente della terra arabica e all’ombra dei grattacieli che creano un panorama surreale, sembrano infinite per i giovani fedeli del Vangelo. Eppure Michelle, dopo aver frequentato l’università negli Stati Uniti e aver vissuto vari anni in Canada dove la sua famiglia si era trasferita, ha deciso di tornare a Dubai. «L’ho voluto fortemente, anche se i miei non erano d’accordo». Perché? «Io qui mi sento a casa, nonostante tutto. E poi… guarda il via vai sul sagrato, qui a fianco. In Canada, non c’erano giovani in chiesa…».