Oltre le divisioni

Respirare il futuro. È la sfida portata avanti da oltre cinquant’anni da Neve Shalom Wahat al-Salam. Ed è anche il titolo del libro di Giulia Ceccutti, che esce oggi e che fa il punto su questo luogo di incontro, dialogo e vita vissuta insieme, in una terra così terribilmente segnata dalla guerra e dalla divisione
«Credo che Neve Shalom Wahat al-Salam mostri alla nostra regione e al mondo che vivere insieme, ebrei israeliani, e palestinesi, e condividere la stessa società, è possibile». Lo afferma Nir Sharo, ebreo, in una delle tante testimonianze raccolte nel libro Respirare il futuro. La sfida di Neve Shalom Wahat al-Salam, pubblicato da ITL Libri – In dialogo. Una fotografia aggiornata su quello che è oggi questa comunità che resiste a una cinquantina di chilomeri da Gerusalemme, Tel Aviv e Gaza. «Non dobbiamo aspettare il futuro – sostiene Neama Abu Delo, palestinese -. Un futuro di pace per noi è già qui, lo stiamo già mettendo in pratica, ma dobbiamo anche mantenerlo e questo richiede un grande impegno».
Sono alcune delle tante voci raccolte Giulia Ceccutti negli ultimi mesi a diverse persone, tutte impegnate a vario titolo nella comunità. Ci sono i responsabili delle istituzioni educative (scuola primaria, Scuola per la pace, Centro Spirituale Pluralista), i “pionieri” (la prima generazione, quella dei fondatori), i loro figli, oggi quarantenni, le voci di alcuni giovani. Si parla anche del 7 ottobre 2023 e dell’ultima guerra. Si parla di un lavoro educativo e a lungo termine oggi ancora più necessario; di progetti e sogni, fatiche e crisi, dell’impegno per provare a gestirle insieme. E si parla dell’oggi – con onestà e franchezza – ma anche del “dopo”: come Neve Shalom Wahat al-Salam continui a tracciare una strada e a rappresentare un’idea di futuro realmente condiviso, a partire da una scelta di resistenza quotidiana.
Vi proponiamo qui un estratto dell’intervento di Shireen Najar, prima bambina araba a nascere nella comunità, dal titolo: “Il nostro esame come comunità”.
Sono stata la prima bambina araba a nascere nella comunità, nel 1980. Per questo, a volte scherzando quando mi presento a chi non mi conosce, dico che io sono il Villaggio e il Villaggio è me.
Quando i miei genitori arrivarono su questa collina, sulla quale all’epoca non c’era assolutamente nulla, erano – come i pochi altri insieme a loro – una semplice coppia. Una coppia con un’idea folle: costruire un luogo di coesistenza per ebrei e arabi in Israele. Ricordo che mio padre, Abdessalam Najjar (per tutti semplicemente Abed), raccontava che la prima volta in cui aveva incontrato degli ebrei era stato all’università, quando aveva diciotto o diciannove anni. Per lui era stato troppo tardi: voleva che i suoi figli crescessero con gli israeliani, coloro che, nella narrazione del popolo palestinese, sono i responsabili di tutti i nostri mali, il nemico che ci ha cacciato e ha preso la nostra terra. Invece di incolparli di tutte le nostre disgrazie e di considerarli nemici, cerchiamo di creare una realtà diversa: questo si sono detti i primi abitanti di 168 respirare il futuro NSWAS. Rendiamoli nostri partner per dare vita a qualcosa di differente. Basta con l’oppressione, l’occupazione: basta essere nemici. Oppressione e occupazione ci sono ancora, ma cerchiamo di costruire un’alternativa. I primi arrivati su questa collina insieme a Bruno Hussar si sono chiesti quale strada avrebbero potuto percorrere e la risposta che si sono dati è stata: prima di tutto, viviamo insieme; in seconda istanza condividiamo le stesse risorse e dinamiche di potere. Portiamo le nostre culture, religioni, identità, tutte insieme su questa collina, in questa comunità.
In seguito, con la nascita dei primi bambini, i residenti si sono chiesti: «E ora che cosa facciamo? Se vogliamo che crescano insieme, non c’è alternativa: fondiamo un nuovo sistema educativo». Così, hanno dato vita al primo sistema al mondo in cui ebrei e arabi studiano insieme e nel quale la cultura araba ed ebraica, la religione, la storia sono tutte insieme. I bambini poi hanno iniziato a crescere e successivamente a dividersi tra scuole diverse, ebree e arabe. La comunità, infatti, non aveva (e tuttora non ha) la forza, il potere economico e la capacità di aprire scuole superiori. Io, ad esempio, ho frequentato l’asilo e la scuola primaria a NSWAS, poi un liceo privato a Ramle, una città non lontana.
Rispetto ai primi anni della comunità, va tenuto presente che negli anni Settanta e Ottanta la narrazione dominante in Israele era diversa, la libertà di espressione limitata. Era vietato esporre simboli o bandiere palestinesi, in casa e fuori. Si rischiava la prigione. 169 il nostro esame come comunità
Dalla Città Vecchia di Gerusalemme al Villaggio
Quando ho sposato mio marito Mustafa, originario di Gerusalemme, abbiamo vissuto per otto anni nella Città Vecchia, uno dei luoghi più oppressi, controllati e militarizzati al mondo. Era una realtà diametralmente opposta a quella del Villaggio. Per me e per i nostri tre figli è stato difficile. So di essere una privilegiata perché a un certo punto ho potuto scegliere di trasferirmi di nuovo sulla collina: nell’estate del 2018, infatti, abbiamo saputo che nella comunità si era liberata una casa in affitto e nel giro di un fine settimana con Mustafa abbiamo deciso di tornare. Ora stiamo crescendo qui i nostri bambini: Yusuf, Muhammad, Abd al-Salam, e nel frattempo è arrivata anche Maryam. Tutti e quattro, tra nido, scuola dell’infanzia e scuola primaria, sono inseriti nel sistema educativo della comunità. Li vediamo felici, sereni, e questo ci conferma nella nostra scelta.
La famiglia di mio marito, invece, abita dall’altra parte del muro di separazione, nei Territori Occupati. Sta nell’area di Ramallah, che fa parte della municipalità di Gerusalemme. Ogni volta che vogliamo andare a trovare zii e cugini dobbiamo oltrepassare un enorme checkpoint e per noi è come guardare in faccia l’occupazione, rivivere un’umiliazione. Quando sono loro a venire a trovarci – se ne hanno i permessi – ci dicono che è come respirare uno spazio di libertà, trovarsi in una sorta di paradiso in terra. Mia suocera sta a Betlemme, anch’essa una città occupata. Non può venire a trovarci perché non ha alcun tipo di permesso israeliano. La nostra, dunque, è una realtà mol- 170 respirare il futuro to divisa e i bambini se ne rendono conto perfettamente: sanno che mentre noi possiamo far visita ai nostri parenti, loro non possono farlo. Ci pongono domande. Respirano questa situazione di tensione.
La frattura del 7 ottobre con occhi palestinesi
Con il 7 ottobre 2023 è cambiato tutto. La realtà nel nostro Paese è mutata in modo radicale. Oggi, diversi mesi dopo, possiamo parlare, ma il primo periodo è stato particolarmente delicato, teso e traumatico. Stiamo tuttora attraversando un trauma e cercando di capire tutti i significati collegati allo scenario attuale, ma senza dubbio siamo in una fase differente.
Dopo il 7 ottobre, mi ci è voluto circa un mese per uscire dal Villaggio; era la mia zona sicura, fuori c’era un livello di tensione altissimo. Dappertutto erano esposte bandiere israeliane: per le strade, nei cinema, nei teatri, nei centri commerciali. Ovunque campeggiavano scritte come: «Vinceremo», «Il popolo israeliano vive», «Israele vincerà»… Non mi sentivo a mio agio né sicura nell’uscire dalla comunità; per me, che indosso l’hijab, era come attraversare un confine. Avevo sempre paura che qualcuno mi avrebbe minacciata o addirittura aggredita perché sono araba e musulmana. Anche mio marito e la sua famiglia mi dicevano di prestare attenzione, di non uscire da sola dal Villaggio. Non ero l’unica a provare questo disagio: tanti altri arabi, nei primi mesi dopo il 7 ottobre, non sono usciti dai loro villaggi. Il clima era così teso e 171 il nostro esame come comunità stressante che non ci sentivamo affatto sicuri a stare negli spazi pubblici. Avevamo paura della polizia e delle armi, presenti ovunque. Tutti – gli uomini, giovani o anziani, ma anche le ragazze e le donne – giravano armati. Anche andare semplicemente in un bar a bere un caffè significava vedere dappertutto nel locale persone che indossavano un’arma: per noi arabi assistere a questa militarizzazione, incoraggiata dal governo, è stato uno shock.
C’era poi un altro aspetto importante, che tocca la libertà di espressione. Rilasciare qualsiasi tipo di dichiarazione sui social media – come ad esempio: «Il mio cuore è con Gaza» o «Oh mio Dio, Dio abbia pietà di Gaza» – equivaleva a essere automaticamente accusati di sostenere il terrorismo. Alcune figure palestinesi note all’interno della società israeliana hanno ricevuto minacce o sono state messe a tacere. Negozi e attività i cui proprietari avevano espresso un dissenso hanno chiuso. Diverse persone hanno perso il proprio posto di lavoro per aver espresso solidarietà nei confronti dei palestinesi di Gaza. Era – ed è tuttora – vietato esporre bandiere della Palestina. Per certi versi, è come se fossimo tornati agli anni Ottanta. Siamo diventati così vulnerabili da rimanere senza parole: questo, per alcuni mesi, è successo anche a me. Ora è diverso. Ora io stessa – come ogni altro facilitatore della Scuola per la pace – invito le persone a parlare, condividere le loro opinioni ed emozioni. Ma per un certo tempo, dopo il 7 ottobre, non me la sono sentita di chiedere ai miei compagni di esprimersi: io per prima temevo per loro, non volevo si esponessero. Il Villaggio era l’unica zona sicura per noi palestinesi: l’unico luogo nel quale 172 respirare il futuro potevamo esprimere la nostra frustrazione. Nonostante questo, restava una zona “sensibile”: se qualcuno al di fuori della comunità fosse venuto a conoscenza di prese di posizione potenzialmente rischiose, avremmo potuto ugualmente incontrare problemi. Non era fantascienza o paranoia: era la realtà. La realtà era che diverse persone, per aver pubblicato anche solo un’affermazione sul proprio profilo social, hanno pagato prezzi assai alti. Come palestinesi eravamo tutti immersi in un profondo senso di frustrazione. Ad aiutarmi a uscire da tale stato d’animo è stata la Scuola per la pace.
La Scuola per la pace come spazio sicuro
Ho studiato alla Hebrew University di Gerusalemme negli anni della seconda Intifada. Ero l’unica ragazza araba in tutta la classe. Il clima era teso, mi sentivo a disagio a stare con gli altri studenti ebrei, che spesso venivano a lezione armati. Non potevo esprimere le mie opinioni politiche né il mio punto di vista, anche se parlavo perfettamente l’ebraico, imparato alla scuola del Villaggio e dagli amici con cui sono cresciuta. Non potevo esprimermi affatto.
Quando, nel 2001 o 2002, venni a sapere che la Scuola per la pace stava aprendo un corso di facilitazione, mi iscrissi subito. Ricordo che, fin dal primo incontro, mi sono lasciata andare: ho potuto raccontare senza paura ciò che sono e i valori in cui credo, mi sono sentita libera di dire molte cose che mi stavano a cuore. Da allora 173 il nostro esame come comunità ho continuato a partecipare a diversi tipi di programmi e sono diventata facilitatrice e traduttrice, da ebraico e arabo, per gruppi in conflitto. Ho lavorato sia per la Scuola per la pace sia per altre organizzazioni, anche all’estero, ad esempio in Germania, Turchia, Giordania.
A giugno 2023 con la Scuola per la pace avviammo, in collaborazione con l’organizzazione israeliana “Cittadini per l’ambiente”, un corso per attivisti nel campo della giustizia ambientale. Con il trauma del 7 ottobre, per un periodo sospendemmo gli incontri, poi decidemmo di riprenderli da remoto. I palestinesi del gruppo erano spaventati, non volevano uscire dai loro quartieri e dai loro villaggi. Nessuno si sentiva al sicuro. Come facilitatrice, mi sono chiesta: «Io, Shireen, come posso facilitare il gruppo che mi è stato affidato? Come posso creare e mantenere una zona sicura al suo interno?». Come anticipato, non volevo che nessuno dei partecipanti venisse accusato o pagasse un prezzo troppo alto per aver espresso ciò che sentiva. Il primo incontro online è stato decisamente difficile. L’obiettivo era dirci semplicemente come stavamo, ma è stato estremamente faticoso. Le persone si sentivano vulnerabili. Alcuni partecipanti ebrei non volevano dare la parola ai palestinesi; una ragazza iniziò a incolparli e accusarli, le chiesi di fermarsi e lei decise di lasciare il corso. Altri chiedevano: «Perché non dichiarate pubblicamente che siete contro Hamas, contro lo spargimento di sangue del 7 ottobre?».
Come facilitatori, bisogna essere sempre molto sensibili nei confronti del gruppo e chiedersi di continuo a che punto sia: è quello che abbiamo cercato di fare anche 174 respirare il futuro dopo il 7 ottobre. Passò una settimana, due, tre. Diversi partecipanti palestinesi non volevano parlare e noi dello staff ci siamo detti che andava bene lo stesso, non avremmo forzato nessuno a farlo. Molti di loro non volevano incontrare l’altro gruppo e anche su questo abbiamo risposto: «Non c’è problema. Sappiamo che non è facile, ora gli ebrei israeliani sono tutti armati o stanno per servire nell’Idf, l’esercito. Un rifiuto è normale. Facciamo tutti un bel respiro».
Verso fine novembre 2023, dato che non potevamo incontrarci al Villaggio negli spazi della Scuola per la pace, dissi a Roi Silberberg, il direttore: «Roi, andiamo noi. Tu guiderai la macchina e io mi siederò vicino a te». Così siamo partiti. Era la prima volta che entravo a Tel Aviv dopo più di un mese. Decidemmo di tenere quel primo incontro in una città con una forte componente araba, Nazaret. Il punto di ritrovo era un caffè; in genere la Scuola per la pace non predilige questo tipo di luoghi per gli incontri, ma si trattava di una situazione eccezionale, segnata dalla fragilità delle persone, che continuavano a sentirsi vulnerabili. Per la maggior parte dei palestinesi del gruppo era la prima volta che lasciavano i propri quartieri. Innanzitutto, ci siamo chiesti: «Dove siamo come gruppo?». Abbiamo iniziato a discuterne. Quell’incontro ci ha trasmesso la consapevolezza di condividere un linguaggio comune: ci ha fatto sentire un gruppo, dandoci la forza di partire, di ricominciare.
Il percorso poi è continuato anche attraverso una separazione dei due gruppi; io ho facilitato quello palestinese. Nelle sessioni separate abbiamo affrontato dapprima i 175 il nostro esame come comunità nostri sentimenti. Ci siamo domandati: come ci sentiamo nel non parlare di temi rischiosi? Cosa pensiamo del fatto che i nostri colleghi israeliani possono mandare i loro figli nell’esercito, a combattere a Gaza? Come ci sentiamo di fronte all’obbligo di non portare armi, mentre gli israeliani sono armati fino ai denti? O di fronte alla richiesta di prese di posizione pubbliche contro le azioni violente, laddove gli israeliani possono mandare i propri figli e nipoti nell’esercito? Abbiamo discusso di tanti aspetti e problemi, relativi anche al linguaggio. Negli incontri successivi, sono emerse domande del tipo: qual è l’attuale concetto di giustizia ambientale? Chiedere ai cittadini di non usare sacchetti di plastica, mentre nella Striscia di Gaza si sganciano bombe, si bruciano persone, campi, si distrugge tutto? Si inquinano l’aria, il suolo, il sottosuolo, l’acqua: come si fa a parlare di giustizia ambientale quando l’ambiente, che non conosce confini e tocca tutti noi, israeliani e palestinesi, non viene nemmeno preso in considerazione? Ci è voluto un po’ di tempo, ma piano piano tutto il gruppo ha compiuto dei passi avanti e il corso è continuato. Al termine del percorso, insieme a “Cittadini per l’ambiente”, i partecipanti hanno emesso un appello ufficiale indirizzato a tutte le principali organizzazioni ambientaliste del Paese. L’appello proponeva di levare insieme la voce per chiedere un cessate il fuoco permanente. Proponeva anche di aprire un tavolo di discussione con l’obiettivo di elaborare un piano d’azione alternativo e una visione diversa da parte degli attivisti per l’ambiente e della società civile. L’appello, in sé, non ha portato a grandi risultati concreti, ma il processo che 176 respirare il futuro ha condotto alla sua stesura sì: per il gruppo, è stato molto importante elaborarlo insieme.
Articoli correlati

Quando un padre diventa un aguzzino

Giordania, l’alba del cristianesimo
