Un nuovo Libano oltre le macerie

Un nuovo Libano oltre le macerie

L’esplosione al porto di Beirut ha aggravato la crisi economica e politica. «La gente è stufa del settarismo», afferma mons. Khairallah, vescovo di Batroun. Che spiega perché non perde la speranza

 

«Quando, all’indomani della devastante esplosione del 4 agosto, sono arrivato a Beirut accompagnato da un centinaio di giovani della mia diocesi per portare un primo soccorso agli abitanti, quello che ho visto mi ha profondamente colpito: migliaia di ragazzi provenienti da tutto il Paese, senza distinzioni religiose o politiche, si erano riversati nelle strade coperte dai detriti per aiutare la gente a ripulire ciò che restava di edifici, case e negozi. Ecco: sono loro il Libano di domani, sono loro la nostra speranza!». Sceglie quest’immagine monsignor Mounir Khairallah, eparca (vescovo) della diocesi cattolica maronita di Batroun, per spiegare come è possibile, nonostante tutto, avere ancora fiducia in un Paese che gli eventi degli ultimi mesi hanno messo in ginocchio. Mentre già la gente faceva i conti con una gravissima crisi economica, sociale e politica e intanto affrontava le conseguenze dell’emergenza Coronavirus, il cuore di Beirut veniva sconvolto dal devastante scoppio di un magazzino nel porto, dove erano depositate 2.750 tonnellate di nitrato di ammonio. «Una vista apocalittica», testimonia il vescovo 67enne. Interi quartieri rasi al suolo, duecento vittime, migliaia di feriti e 300 mila persone rimaste senza casa.

Difficile credere a quante prove questo piccolo, bellissimo Paese incastonato in un Medio Oriente più che mai inquieto sia chiamato, continuamente, ad affrontare. Uscito a pezzi da una guerra civile finita ufficialmente nel 1990 (ma che ha lasciato strascichi pesanti, non solo materiali), schiacciato nel gioco delle influenze regionali, quella siriana in testa, che ne hanno insanguinato la vita politica, il Libano da decenni arranca per trovare un equilibrio che possa garantire stabilità alla sua gente.

Un popolo abituato alla pluralità – le comunità riconosciute sono ben 18 -, ma la cui classe politica non ha mai smesso di fomentare le differenze per opportunismo. Senza contare la sfida rappresentata dall’accoglienza di masse enormi di profughi: 500 mila palestinesi a cui si sono aggiunti oltre un milione e mezzo di siriani in fuga dalla guerra. Numeri esorbitanti, su una popolazione di appena quattro milioni e mezzo di abitanti. La Chiesa maronita, in particolare attraverso la Caritas, non ha risparmiato energie per cercare di venire incontro alle necessità dei rifugiati, ma i bisogni sono enormi e le risorse limitate.

«La crisi ha colpito tutti i libanesi». Monsignor Khairallah, che è anche consigliere del patriarca maronita Béchara Boutros Raï, snocciola i dati sconfortanti diffusi dall’Onu: «Si prevede che l’inflazione quest’anno supererà il 50%, con i prezzi medi del cibo in aumento del 141% rispetto al 2019, mentre le misure di contenimento del Coronavirus hanno provocato un ulteriore aumento dei tassi di povertà e disoccupazione. Più della metà della popolazione rischia di non essere in grado di soddisfare i propri bisogni alimentari di base entro la fine dell’anno». E mentre la gente lotta per sopravvivere, oppure si rassegna a tentare la via dell’emigrazione – si parla di 300 mila richieste di visti per l’espatrio -, «i nostri leader politici si fanno la guerra per spartirsi il potere, come se niente fosse!».

La corruzione e l’inefficienza della classe dirigente, che si ricicla, tra legami familiari e clientelari, da decenni, sono in effetti la chiave dei problemi del Paese e non a caso sono l’obiettivo delle massicce proteste di piazza innescatesi l’anno scorso, placatesi solo in seguito alla pandemia e divampate di nuovo sulla scia della rabbia per l’incidente al porto, a cui si sono aggiunti a settembre alcuni gravi incendi dall’origine dubbia. Il patriarca Raï, di fronte a questo scenario, ha chiesto «un’indagine internazionale imparziale e indipendente», aggiungendo: «Non accettiamo più un governo che somigli ai precedenti, che hanno portato il Paese al collasso. Un governo in cui i portafogli sono appannaggio di un campo o di una comunità».

Anche la Chiesa, dunque, è pronta a chiedere una svolta rispetto al sistema di spartizione delle cariche politiche su base confessionale, che ha garantito gli equilibri interni fino ad oggi?
«La nostra Costituzione del 1926 parla del Libano come di uno Stato civile, in cui cioè ogni cittadino è uguale davanti alla legge a prescindere dalla sua appartenenza comunitaria, che deve comunque essere rispettata», precisa monsignor Khairallah. «Ma l’articolo 95 della Carta è stato rivisto con il Patto nazionale nel 1947 e poi con gli accordi di Ta’if nell’89, che prevedevano una spartizione del potere politico tra le diverse comunità come misura temporanea, da superare non appena fosse stata possibile l’applicazione piena della Costituzione. Invece, questa suddivisione delle cariche si è andata degradando fino a trasformarsi in un sistema clientelare in cui i politici approfittano dell’appartenenza confessionale per fare i propri interessi».

Lo spettro dei conflitti settari viene agitato per placare le spinte sempre più forti verso il rinnovamento. «Ma i cittadini sono stufi di essere presi in giro. Non vogliamo che i governanti agiscano in quanto cristiani, sunniti, sciiti o drusi, ma in quanto politici che hanno obblighi e responsabilità nei confronti del popolo. E invece oggi siamo al fallimento dello Stato». Il tutto aggravato dalla «guerra di interessi» che diversi attori regionali giocano sulla pelle dei libanesi, a motivo della quale il patriarca Raï ha recentemente lanciato un “Manifesto sulla neutralità del Libano”, in cui sottolinea l’urgenza di smarcarsi dalle rivendicazioni incrociate delle grandi potenze sull’area.

Eppure, tanti libanesi non lasciano che l’esasperazione si trasformi in rassegnazione. Soprat­tutto i giovani, quelli che ripuliscono le macerie dalle strade e che non smettono di alzare la voce contro il governo. «Le nuove generazioni rivendicano trasparenza e onestà, non hanno paura e si ostinano a sperare che un giorno saranno le competenze dei singoli a garantire i seggi in Parlamento», sostiene con decisione il prelato. L’energia e la generosità di questi ragazzi lui le conosce bene. «Dopo l’esplosione di Beirut, io e una delegazione di giovani della mia diocesi, in particolare scout e movimenti mariani, abbiamo creato un gemellaggio con la parrocchia di Sant’Antonio da Padova a Gemmayzeh, uno dei quartieri più devastati, per portare aiuto alle famiglie in difficoltà».

Oltre al sostegno materiale e alla manodopera per la ricostruzione, si offre supporto umano e spirituale. «Con i ragazzi animiamo la Messa, poi andiamo a visitare i parrocchiani, per stare loro vicini e ascoltarli. Ci dicono che hanno perso tutto, che non vogliono andarsene ma che non hanno i mezzi per riparare le loro case, molte delle quali sono classificate come monumenti storici e non possono essere toccate senza il permesso della Direzione generale per il patrimonio, che però non ha i soldi per finanziare i restauri».

In uno Stato paralizzato, ogni cosa diventa più difficile. La Chiesa, da parte sua, è in prima linea in tutti i contesti di bisogno – attraverso Caritas, San Vincenzo, movimenti ecclesiastici… -, nel settore educativo – con le sue scuole e università -, in quello sanitario. «Cerchiamo di vivere la prossimità con il popolo, soprattutto i più deboli, per testimoniare che la Chiesa è una mamma che ama tutti gratuitamente».

In quest’ultima tragedia vissuta dalla capitale libanese, i cittadini cristiani hanno pagato un prezzo altissimo, visto che la zona da loro prevalentemente abitata è rimasta totalmente devastata dallo scoppio al porto. Almeno dieci chiese sono state distrutte, mentre tre ospedali e diverse scuole legate alla Chiesa hanno subito gravi danni.

Anche nella comunità maronita molti giovani sono tentati dall’emigrazione. Proprio a loro si è rivolto il cardinale Parolin nella sua visita in Libano all’inizio di settembre: «Non siete soli nelle vostre prove, vi invito a resistere, a sperare!», ha affermato il Segretario di Stato vaticano durante la celebrazione al santuario di Harissa. Nota monsignor Khairallah: «Si tratta dell’appello dello stesso Papa Francesco, che ha rilanciato il concetto di “Paese messaggio” caro a san Giovanni Paolo II: “La pluralità del Libano è una testimonianza sia per l’Occidente che per l’Oriente, non rinunciate a questa missione!”. Una sfida che accettiamo, con speranza, nonostante tutto».

 

AIUTA CON IL PIME

A sostegno della popolazione colpita dall’esplosione del 4 agosto la Fondazione Pime con AsiaNews ha lanciato la raccolta fondi straordinaria “AN04 – In aiuto a Beirut devastata”, che supporta l’impegno di Caritas Libano. Per i primi interventi la Fondazione ha già inviato 50 mila euro; con l’inverno alle porte, però, ora servono abiti pesanti e luoghi di accoglienza per i senza casa. Potete donare a questo link.