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Amazzonia, il grido degli ultimi

Ascoltare la popolazione locale e la società civile amazzonica è fondamentale per costruire insieme soluzioni realizzabili. Parla il professor Mário Tito Almeida dell’Università dell’Amazzonia. Guarda la sua intervista anche nella nuova puntata di Finis Terrae

Docente di relazioni internazionali all’Università dell’Amazzonia e all’Università Statale del Pará, Mário Tito Almeida tiene anche un corso di filosofia all’Università Cattolica di Belém (Facbel). Ha accompagnato in prima persona il percorso di avvicinamento alla Cop30 e ne sarà anche uno dei protagonisti in molti eventi collaterali.

Professor Almeida, qual è il significato di ospitare la Cop30 a Belém?

«L’Amazzonia è uno dei biomi più importanti al mondo. Quindi, venire qui significa vedere in prima persona tutti i problemi che possono derivare dal cambiamento climatico. Penso inoltre che sia un’opportunità per noi di parlare apertamente, di condividere la nostra situazione e di ascoltare ciò di cui il mondo sta discutendo. Mi sembra cruciale che non solo i leader mondiali, ma una vasta fetta della società civile possa vedere la situazione dell’Amazzonia e discutere di come proteggerla, tenendo insieme economia e sostenibilità».

Quali sono i temi, le sfide e anche le proposte che l’Amazzonia porterà alla Conferenza sul clima?

«Tre cose principali. La prima è la necessità di ascoltare le voci delle persone che vivono qui e più in generale nel Sud globale. La seconda è rendersi conto che la crisi climatica è maggiormente avvertita da coloro che non sono nelle condizioni di affrontarla. La terza è percepire che qui in Amazzonia non siamo meramente il “polmone del mondo”, ma un insieme di vite. La foresta non è solo alberi e fiumi. E non si tratta solo di proteggere la fauna e la flora, ma anche la vita di chi vive qui, intrecciata ontologicamente a quella della natura».

È la prospettiva dell’ecologia integrale…

«Esatto. Occorre guardare la questione climatica da una prospettiva socio-ambientale, collocando l’umano all’interno di questo equilibrio, nel quadro, appunto, di un’ecologia integrale. Preservare la foresta, ad esempio, non riguarda solo la biologia, ma anche l’essere umano che vive al suo interno. E non si tratta solo di foresta in senso rurale, ma anche di foresta urbana. Qui a Belém siamo in Amazzonia, pur se ci troviamo in mezzo a palazzi e grandi edifici».

Come si sono preparate le popolazioni locali?

«Come società civile abbiamo pensato che fosse importante innanzitutto creare reti e pensare insieme. Questo per noi è un problema perché la regione è troppo vasta e scarsamente popolata. Raggiungere le persone non è facile. Però, anche attraverso Internet, abbiamo cercato di incontrarci e discutere, coinvolgendo il più possibile tutte le comunità. Non è stato facile, ma siamo cresciuti molto».

Quali sono gli impatti più devastanti della crisi climatica?

«Si stanno producendo gravi squilibri nella vita della foresta e delle persone. Chi vive di pesca, ad esempio, si trova in grande difficoltà. Più in generale, l’accesso al cibo è un problema. Nel 2024, il Brasile era ancora sulla mappa della fame della Fao e la regione più colpita era proprio l’Amazzonia. Se prendiamo l’Indice di sviluppo umano  su 5.570 comuni, i dieci peggiori si trovano qui. Il cambiamento climatico sta contribuendo a far sì che anche la popolazione delle città si ritrovi oggi in condizioni di grave povertà».

Ma è solo una questione di cambiamento climatico?

«È anche un problema di leadership. Oltre alla deforestazione, si investe molto sull’agrobusiness, che ha ripercussioni molto negative: il cibo è meno accessibile e sempre più caro e questo riduce la sicurezza alimentare».

Recentemente sono state votate alcune leggi molto controverse che invece di proteggere l’Amazzonia favoriscono potenzialmente un’ulteriore devastazione.

«Nonostante il presidente Lula sia stato eletto anche sulla base di promesse legate alla protezione dell’Amazzonia, abbiamo un Congresso federale che segue la linea del passato, con persone e gruppi legati all’agrobusiness che non vogliono limitazioni. Gli interessi, però, non sono solo brasiliani, ma anche transnazionali, con gli Stati Uniti, ad esempio, che hanno messo gli occhi sulle nostre terre rare».

Quindi la ricchezza dell’Amazzonia non avvantaggia la gente del posto, ma anzi accresce le diseguaglianze?

«Il Brasile è da sempre un produttore di materie prime e merci da esportazione. Per quanto riguarda l’Amazzonia, negli anni Settanta, è iniziato un processo di sfruttamento e di “ripopolamento” di un territorio che si considerava “vuoto”, attraverso l’immigrazione da altre regioni. Queste dinamiche economiche non hanno mai rispettato le condizioni proprie della regione. Ancora oggi, le élite del Paese continuano a guadagnare a discapito della popolazione locale. E così i poveri sono sempre più poveri perché non hanno mai potuto davvero accedere alla produzione della ricchezza».

La città di Belém, in particolare, ha uno dei più alti tassi di diseguaglianza sociale del Brasile. Come lo spiega?

«A Belém ci sono moltissime persone provenienti dall’entroterra che arrivano in cerca di migliori condizioni di vita e di strutture scolastiche e universitarie, ma non c’è abbastanza lavoro per tutti. L’istruzione poi, soprattutto nello Stato del Pará, non è orientata a formare professionisti, ma lavoratori sottopagati. Nelle grandi aziende, le persone che guadagnano di più non sono di qui. Anche questo non favorisce un processo di distribuzione più equa del reddito».

I leader mondiali si ritroveranno in un contesto che è cambiato moltissimo anche a seguito delle elezioni americane e allo smantellamento di molte forme di multilateralismo. Quali aspettative?

«La Cop in se stessa è concepita come un incontro di leader. Quindi, sono un po’ scettico sui risultati, perché coloro che contribuiscono maggiormente al riscaldamento globale non accettano di dialogare e di trovare soluzioni condivise. Gli Stati Uniti, poi, neppure ci saranno e questo è un problema, anche perché non credono più nella possibilità di cambiare la loro matrice energetica. Altri però potrebbero affrontare la situazione. Penso che Paesi come Cina, India, Sudafrica, lo stesso Brasile e l’Unione Europea possano trovare un cammino comune».

In che modo?

«Ascoltando la società civile che è una forza sempre più grande, e lo sarà in particolare qui a Belém, Ma se verrà messa a tacere, succederà come in altre Cop, in cui sono emerse molte possibilità ma non si è fatto nulla per realizzarle».  

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