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Nel cuore dell’Amazzonia

La Conferenza Onu sul clima (Cop30) si tiene a novembre a Belém, in Brasile, dove le comunità affrontano le peggiori conseguenze della crisi climatica e dello sfruttamento. Ma provano anche a reagire. Viaggio tra meraviglie e distruzione

Una strada di terra rossa fende il verde intensissimo e rilucente della foresta. Un intrico di corsi d’acqua la irrorano come vene cariche di nutrimento e vita. L’Amazzonia è di una bellezza sconfinata e sconvolgente. Tutto è grande. Più che grande. È smisurato. Va oltre le coordinate di chi, in questa parte del mondo, ha ancora la pretesa di “addomesticare” la natura. Ma di smisurato, in Amazzonia, non ci sono solo la foresta, la sua incredibile biodiversità, la flora e la fauna più ricche al mondo. C’è anche la devastazione. E pure questa è visibile e sanguina come una ferita che continua a dilatarsi.

L’Amazzonia si sta dissanguando. Più di 50 milioni di ettari di terra sono stati barbaramente disboscati negli ultimi quarant’anni e “svuotati” delle popolazioni originarie per farne campi, piantagioni, allevamenti, miniere… Siamo vicini al punto di non ritorno. Tra 15 anni la grande foresta potrebbe non essere più in grado di rigenerarsi. E così, in occasione della Cop30, che si tiene in Brasile, oggi più che mai l’Amazzonia leva un grido di denuncia e di rivendicazione. Una richiesta accorata di giustizia climatica e di giustizia sociale.

A Belém – la “porta dell’Amazzonia” – è tutto pronto, o quasi, per accogliere la Conferenza Onu sul clima. Dal 10 al 21 novembre, sono attesi i leader mondiali per il summit delle parti e più di 50 mila persone in rappresentanza di circa 400 associazioni, movimenti popolari, Chiese e attivisti che daranno vita alla “Cúpola dos Povos”, il Vertice dei Popoli. Un grande movimento dal basso, un crocevia di riflessioni, incontri, lotta e resistenza, dove sono presenti anche i popoli, i volti e le voci dell’Amazzonia. Mai come quest’anno la Cop si svolge in un luogo così simbolico e così cruciale per le sorti del pianeta. Farà la differenza?

Se lo chiedono in tanti a Belém, come pure nei posti più remoti dello Stato del Pará di cui è capitale o nel vicino Stato dell’Amapá, il più a nord-est del Brasile, dove i missionari del Pime hanno una lunga storia di presenza e di condivisione delle istanze e delle battaglie dei popoli della foresta, dei fiumi e anche delle città. C’è molto scetticismo, almeno per quanto riguarda la Conferenza delle Parti. C’è maggiore speranza per il grande lavoro di formazione e sensibilizzazione che è stato fatto con la gente.

Ne è convinto padre Francesco Sorrentino, missionario del Pime 45enne, che nei lunghi mesi di preparazione ha dovuto subire, come tutti a Belém, i disagi legati ai lavori disseminati in tutta la città e in particolar modo nei luoghi della Cop30. «Un’operazione di maquillage – commenta -. La città avrebbe bisogno di ben altri interventi strutturali». Lui stesso ne fa esperienza quotidiana nella sua parrocchia di Santa Luzia, dove è presente un altro missionario del Pime, padre Flavio Piccolin. Jurunas è un quartiere periferico, costruito per metà su palafitte, che si affaccia sul Rio Guamá. «Più di 65 mila abitanti sono ammassati in un’area di circa 2,5 chilometri quadrati, dove il 70% delle abitazioni è irregolare – fa notare padre Francesco -. La città è cresciuta a dismisura in un arco di tempo piuttosto breve. Oggi conta circa 1 milione 400 mila abitanti, ma più della metà vive in insediamenti precari e senza servizi».

Man mano che ci si avvicina al fiume, le viuzze si fanno sempre più strette per poi trasformarsi in passerelle di legno. Anche le dimensioni delle abitazioni diventano via via più piccole e soffocanti. In alcune zone è meglio non avventurarsi perché sono controllate da gruppi criminali dediti al narcotraffico. Occorre conoscere, come padre Francesco, anche le mappe della geografia umana.

La signora Judite ci accoglie con l’immancabile caffè nella sua baracca di legno sospesa sull’acqua. Con lei, la figlia e la nipote. Di giorno, questa zona di palafitte è un mondo prettamente al femminile, animato dalle voci e dai giochi dei bambini. Ci sono alcuni negozietto e qualche piccolo laboratorio artigianale, tutti molto rudimentali, ma con inferriate su porte e finestre. «In posti come questo è inevitabile che ci sia anche delinquenza. La gente si riversa in città dalla foresta, ma non trova lavoro e condizioni di vita dignitose e molti giovani finiscono in giri pericolosi», spiega padre Sorrentino, che viene continuamente fermato dai suoi parrocchiani per una preghiera, una benedizione o semplicemente un abbraccio. La gente è molto calorosa e devota. «La fede per molti è un’ancora di salvezza», dice il missionario, che mette in evidenza come le grandi sfide dell’Amazzonia oggi non si giocano solo nella foresta, ma appunto anche nelle grandi città, segnate da gravi diseguaglianze, ingiustizie ed emarginazione. «Tanta gente, e tanti giovani in particolare, hanno bisogno di riferimenti, anche perché spesso vivono situazioni familiari difficili, segnate dalla povertà e dalla violenza».

Anche dall’altra parte del Rio delle Amazzoni, nello Stato dell’Amapá, non si arrestano le migrazioni interne e l’urbanizzazione forzata. Il 75% della popolazione vive già in zone urbane, in particolare, tra la capitale Macapá e il porto di Santana, che ormai sono diventati un tutt’uno. «Si “svuota” la foresta per poter continuare a sfruttarla impunemente», denuncia padre Sisto Magro, 61 anni, missionario del Pime di origine trevigiana. Da 35 vive in Brasile e dal 2008 è responsabile della Pastorale della terra della diocesi di Macapá. Un lavoro difficile e che dà molto fastidio. Nel 2020 è stato aggredito insieme al confratello americano Dennis Koltz. Ancora oggi, come tutti quelli che si occupano di conflitti legati alla terra, continua a subire pressioni e minacce. «È difficile discutere con chi ha il potere del denaro e delle armi. Non per niente lo Stato dell’Amapá è quello con il più alto numero di omicidi di tutto il Brasile», ci dice mentre attraversiamo una foresta lussureggiante che sembra non finire mai. Solo entrandoci dentro ci si rende davvero conto di quanto l’Amazzonia sia un grande polmone verde. Ci sono alcune ore del giorno, specialmente nel primo pomeriggio quando temperatura e umidità sono molto alte, che si sente letteralmente la foresta traspirare. È una sensazione avvolgente e cosmica. La foresta respira e fa respirare, nonostante si cerchi di soffocarla con progetti indiscriminati di disboscamento, piantagioni sterminate di soia e mais per gli allevamenti intensivi, scavi minerari e mega dighe idroelettriche, che aggravano la crisi climatica.

Padre Sisto conosce palmo a palmo questa parte di foresta. E conosce una per una le occupazioni illegali di terra. La sua “arma” è la macchina fotografica con cui documenta i cartelli all’ingresso delle concessioni e, soprattutto, le devastazioni. «Quando vedo un nuovo cartello mi fermo a fotografarlo e poi verifico tramite i siti del catasto a chi appartiene quella proprietà e se è stata regolarmente registrata. Nella maggior parte dei casi si scoprono abusi e irregolarità». Ancora oggi enormi estensioni di terra vengono occupate e sfruttate senza i dovuti permessi. «Abbiamo situazioni in cui tre persone possiedono lo stesso titolo di proprietà. Evidentemente, qualcuno non è in regola». In altri casi, si tratta di piantagioni gigantesche che però si “allargano” ben oltre il terreno registrato, a volte anche per migliaia di ettari.

Padre Sisto raccoglie tutta la documentazione necessaria, spesso in collaborazione con comunità e associazioni locali. E poi fa denuncia. Lungo la strada, si ferma al tribunale di Tartarugalzinho per lasciare tutte le carte necessarie per aprire un nuovo caso. Vorrebbe incontrare il procuratore, ma dicono che è impegnato. Di sicuro ci ritornerà. Padre Sisto è tenace, anche se il suo lavoro assomiglia a una sfida impossibile: Davide contro Golia. Lui però non si scoraggia: «Come Pastorale della terra presentiamo un centinaio di denunce all’anno. Alcune non portano mai a processo e molte cadono in prescrizione. Negli altri casi spesso vinciamo. Il problema è che dopo non succede quasi mai niente». Ovvero chi occupa continua a occupare; chi sfrutta continua a sfruttare.

Nella zona di Maracá, ad esempio, è in corso un progetto enorme di disboscamento. «Impossibile avvicinarsi troppo», ci mette in guardia il pastore Crispino Souza, presidente della locale associazione di castanheiros, i raccoglitori della castagna del Pará che, insieme all’açai, un frutto con bacche violacee da cui si estrae un succo denso, è la principale fonte di sostentamento delle comunità della zona. «Hanno sistemi di video sorveglianza e persino telecamere termiche!». Ma se non si può penetrare nella foresta, i tronchi che ne escono sono ben visibili sugli enormi rimorchi che si dirigono verso il fiume Vilanova, dove grandi chiatte sono pronte a partire cariche di legname nobile verso il porto di Santana. «Come Pastorale della terra – dice padre Sisto – supportiamo questa associazione e cerchiamo di difendere quella parte di foresta che permette loro di sopravvivere». «Avevano detto che non avrebbero abbattuto i castagni, ma lo hanno fatto», protesta il pastore Souza.

Tutta un’altra situazione è quella dei garimpeiro, i cercatori d’oro, che, in qualche modo, sono al tempo stesso vittime e “carnefici”. Ai margini del villaggio di Lourenço, le colline sono sventrate dagli scavi, mentre un bacino d’acqua dallo strano colore verde rivela l’uso di mercurio, che poi inquina anche le falde acquifere con gravi danni per la salute delle persone. Jerry detto Guerreiro è un omone gigante che però si commuove quando ricorda i sacrifici e le fatiche che ha dovuto sopportare per ottenere la concessione della sua miniera. Si tratta di un tunnel lungo oltre due chilometri e profondo 350 metri, abbandonato in passato da un’impresa canadese che non lo riteneva più sufficientemente produttivo. Dentro, una ruspa sta ripulendo alcune grotte laterali, mentre alcuni uomini con il martello pneumatico perforano la roccia con un rumore spaventoso. Sembra un girone infernale, ma Jerry ne è orgoglioso. Quel buco nella terra dà da vivere a lui, a diversi operai e alle loro famiglie. Qui a Lourenço lo sfruttamento dell’oro avviene (più o meno) legalmente attraverso una cooperativa che appalta i lotti a piccole compagnie. In altre zone viene fatto illegalmente e spesso con grossi conflitti. A qualche chilometro, il giorno prima, sono stati uccisi 9 uomini probabilmente per una resa dei conti. Succede spesso. La vita delle persone sembra non valere molto da queste parti. E tanto meno l’ambiente.

«Come se tutto questo non bastasse, adesso ci si mette pure il petrolio!», sospira padre Sisto, mentre ci dirigiamo verso Oiapoque, alla frontiera con la Guyana francese, l’unica area dell’Amapá dove sono ancora presenti le popolazioni indigene. Padre Sisto riesce a venire qui solo saltuariamente. Ci vogliono quasi dieci ore di auto da Macapá. La pastorale ordinaria viene garantita da un missionario indonesiano del Verbo Divino, padre Elfridus, che si muove principalmente in canoa per raggiungere i villaggi più remoti. «Oggi c’è molta preoccupazione per il grande progetto di sfruttamento petrolifero al largo di queste coste», spiega padre Elfridus, mentre si confronta con i caciques (capi) locali. «Nessuno ci ha consultati – protesta uno di loro, Wagner -. Per questo come coordinamento dei caciques abbiamo chiesto un incontro con la Petrobras per esprimere le nostre preoccupazioni e per chiedere garanzie per il nostro territorio e per noi stessi». Anche i pescatori di Oiapoque sono molto allarmati. Julio Garcia, della Colonia dos Pescadores, il sindacato locale, non risponde alle chiamate di padre Sisto. Quando finalmente lo troviamo, ammette che temeva che il missionario fosse favorevole al progetto petrolifero. «Qui molte persone sono state ingannate con la propaganda – dice -. La verità è che rappresenta una grande minaccia per noi pescatori e per tutta la popolazione locale. La nostra economia si regge al 70% sulla pesca. Già incontriamo molte difficoltà a causa dell’innalzamento della temperatura del mare. Ora temiamo le conseguenze dell’inquinamento su un ecosistema particolarmente fragile».

Nella foresta amazzonica, i corsi d’acqua sono preziosi tanto quanto la vegetazione e la fauna. I fiumi sono vita e via di comunicazione. Lo scorso anno, una terribile siccità ne ha prosciugati molti. E più di 140 mila incendi identificati tramite satellite hanno distrutto migliaia di ettari di foresta e rilasciato enormi quantità di anidride carbonica, contribuendo alla degradazione del bioma amazzonico e, di conseguenza, delle condizioni di vita della gente.

«Il nostro sogno – scriveva Papa Francesco in Querida Amazonia – è quello di un’Amazzonia che integri e promuova tutti i suoi abitanti perché possano consolidare un “buon vivere”. Ma c’è bisogno di un grido profetico e di un arduo impegno». Un messaggio di grande e drammatica attualità anche per la Cop30.

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