Cop30 a Belém: quando la fede diventa partecipazione
Il vescovo Paolo Andreolli: «La Chiesa del Brasile sarà presente da protagonista alla Cop30, dove porterà le voci dei popoli che vivono nella foresta e se ne prendono cura»
Quattro giorni di incontri, conferenze, celebrazioni, mostre, proiezioni… La Chiesa cattolica brasiliana sarà presente da protagonista alla Cop30. Un impegno che non nasce oggi e che non si lega univocamente alla Conferenza Onu sul clima, ma è parte di un percorso cominciato da lontano e che si è intensificato con la pubblicazione delle encicliche di Papa Francesco Laudato si’ e Laudate Deum e con le molte e articolate riflessioni che hanno accompagnato e seguito il Sinodo sull’Amazzonia.
«Riflettiamo su questo tema da dieci anni ormai, a partire dalla Laudato si’ – spiega il vescovo ausiliare di Belém dom Paolo Andreolli, missionario saveriano di 52 anni che, insieme ad altri due vescovi, fa parte della Commissione nazionale “Igeja rumo Cop30” (“La Chiesa verso la Cop30”): un progetto articolato e ricchissimo di iniziative in particolare per la sensibilizzazione e la formazione popolare, che si è concretizzato in vari eventi pre Cop nelle macroregioni del Brasile, come pure nella Campagna di Fraternità 2025 della Chiesa brasiliana dedicata all’ecologia integrale.
Dom Paolo, insieme all’arcivescovo Belém Júlio Endi Akamine e all’emerito Alberto Taveira Corrêa saranno molto attivi a vari livelli durante la Cop30, come la speranza di poter partecipare anche alla Conferenza delle Parti, perlomeno con diritto di ascolto. Che è già sarebbe un passo importante.
«Il processo della Chiesa verso la Cop30 – dice – mira proprio a valorizzare le persone che sono nate qui e che hanno una voce importante e attiva. A volte, possono essere fastidiose per alcuni sistemi economici, perché considerano una priorità il bene comune, il bene integrale, non solo quello finanziario. Ma sono sicuro che porteranno un grande beneficio alla riflessione e spero anche alle decisioni».
La visione della Chiesa non si limita però all’appuntamento di novembre: «Tutto ciò che abbiamo costruito finora è come un seme che si svilupperà anche in futuro. Stiamo cercando di promuovere una mentalità diversa. Siamo in un processo. E speriamo proprio di vedere un giorno il mondo come Dio ce lo ha donato: un mondo creato per tutti, per quelli di oggi e per quelli di domani». Per questo, aggiunge, «dobbiamo resistere alla tentazione di soluzioni facili e, soprattutto, guardare e ascoltare tutti i punti di vista per cercare di andare avanti insieme. I problemi sono sistemici, non solo economici, abbracciano molteplici aspetti, cosicché anche le soluzioni devono provenire da più prospettive. Crediamo in un modello di sviluppo circolare, sostenibile e non predatorio, e sappiamo che dobbiamo sacrificare parte dell’economia per garantire il benessere integrale delle persone e ridurre l’impatto sull’ambiente».
Per fare questo, però, non basta preservare ciò che già esiste, ma va ripristinato anche ciò che è stato distrutto. «L’Amazzonia – sostiene il vescovo – può continuare a mantenere l’equilibrio di ossigeno e umidità nel mondo solo se i Paesi più ricchi troveranno il modo di non danneggiare ciò che appartiene a tutti. L’impatto negativo non riguarda solo l’ambiente e il clima, ma anche le persone, e in particolare coloro che si prendono cura di questi luoghi. I popoli tradizionali si relazionano alla natura come a una madre. E questo ha un valore inestimabile, impagabile con tutto il denaro del mondo».
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