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Un “bicchiere d’acqua” per chi è solo a Saitama

In un Paese come il Giapppone, dove aumentano i kodokushi, i morti in casa scoperti dopo giorni, l’esperienza del Centro Mizu Ippai promosso da padre Marco Villa

In giapponese la chiamano kodokushi: è la morte in casa che non viene scoperta per un lungo periodo di tempo dopo il decesso. È uno dei drammatici volti della solitudine oggi in Giappone, accentuata dall’invecchiamento della popolazione: una persona su quattro ormai ha più di 65 anni. Secondo alcuni nuovi dati diffusi nelle scorse settimane dall’Agenzia nazionale di polizia, in Giappone solo nel solo primo semestre del 2025 sono state 40.913 le morti avvenute in isolamento nelle abitazioni. Una cifra che segna un aumento di 3.686 casi rispetto allo stesso periodo del 2024. Ma il dettaglio forse ancora più inquietante è che il 28% di questi decessi (11.669 persone) è stato scoperto dopo almeno 8 giorni.
E proprio queste forme estreme di aridità relazionale sono un ambito che conosce bene padre Marco Villa, missionario del Pime, in Giappone ormai da più di 25 anni, che vive il suo ministero a Koshigaya, cittadina dell’immensa periferia nord di Tokyo, nella diocesi di Saitama. «Si tende sempre più a non avere legami significativi né con il territorio, né con la famiglia – racconta -. La maggioranza della gente non vive nei luoghi dove è cresciuta, ma si trova a vivere dove c’è lavoro. Quindi, si fa più fatica a intrecciare relazioni significative con gente che non si conosce. Ciò accade anche perché avere relazioni a volte è davvero faticoso, allora si decide di non impegnarsi».

Nel 2012 padre Villa ha favorito la nascita a Koshigaya del Centro d’Ascolto Mizu Ippai (“un bicchiere d’acqua”) – di cui è responsabile – proprio con l’obiettivo di sostenere chi è affetto dalla solitudine, comprese le persone hikikomori, che soffrono di isolamento patologico ed estraniamento. Nel suo servizio non è raro che venga a conoscenza anche di casi di kodokushi, l’ultimo solo pochi mesi fa. «Una signora che frequenta il centro è rientrata a casa la sera, dopo un incontro. Dopo circa due settimane, il figlio mi ha chiamato dicendo che non aveva contatti con la mamma, chiedendo se l’avessi sentita. È andato a vedere se si trovava a casa, e l’ha trovata morta», racconta padre Marco.

È la dimostrazione di come anche le persone che riescono a curare dei legami, a uscire di casa, possono andare incontro a una morte isolata. «Vivendo da sola si è imbattuta in questi rischi», dice Villa. Rischi che aumentano ulteriormente in quelle persone che, invece, vivono una solitudine più estrema, perché non hanno dei familiari vicini, o perché non hanno degli amici. «Poco fa – racconta il missionario del Pime – una persona mi ha chiamato al telefono dicendomi che è morto un suo amico; ora gliene rimane solo un altro, che sente due volte all’anno: una per gli auguri di compleanno e una per gli auguri di buon anno. È l’unico amico che ha: mi ha chiesto di passare del tempo insieme. Sono queste le situazioni che incontro regolarmente».

Oltre alla significativa quota di persone anziane in Giappone, a favorire il preoccupante fenomeno dei kodokushi è anche «la ritrosia della persona giapponese a chiedere aiuto». Padre Villa spiega che, culturalmente, nel domandare è insita «la preoccupazione di dare fastidio agli altri, di non voler dare preoccupazioni a causa delle proprie difficoltà». Di qui la tendenza a gestire in totale autonomia i problemi personali. Ciò affievolisce inevitabilmente i legami con le persone della famiglia, così come con quanti vivono nello stesso luogo.

Padre Villa ammette di essere rimasto «sconvolto» dalla «solitudine profonda» incontrata nel Paese. E proprio da questo sentimento è nato il Centro d’Ascolto Mizu Ippai. «Chiesi al vescovo (della diocesi di Saitama, ndr) di poter iniziare un’attività a tempo pieno per cercare di alleviare la solitudine delle persone», racconta. Il Centro mette in campo le risorse del «volontariato dell’ascolto»: non professionisti all’opera, ma volontari e volontarie che offrono la propria disponibilità ad ascoltare, nella struttura, così come alla stazione ferroviaria, luogo di aggregazione per la presenza di numerosi negozi. Un’attività che affianca le iniziative istituzionali. «Lo Stato è consapevole di queste situazioni e cerca di essere sempre più presente in maniera capillare nel territorio attraverso strutture dedicate, cercando di creare delle occasioni di incontro per la gente. Questo è un tentativo, secondo me valido, che il Giappone porta avanti», spiega.

Come invertire la tendenza di questa drammatica e così diffusa esperienza umana? «La cosa essenziale è creare delle occasioni di incontro, dei luoghi adatti per potersi trovare; fondamentalmente cercando di diventare amici delle persone che vivono in stato di solitudine», risponde padre Villa. Solitudine che in alcuni casi viene “risolta” da lunghi dialoghi intrattenuti con l’intelligenza artificiale. «Ieri un ragazzo mi diceva che l’AI è l’unica “persona” che lo capisce, che riesce a comprendere i suoi problemi. Così crede di avere qualcuno, qualcosa con cui si relaziona, che però non è certamente un essere umano». Eppure – è convinto il missionario – per uscire da queste situazioni «basta poco: una via, una linea, un aggancio, capace di instaurare un minimo di relazione umana».

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