Aiutiamoli a casa loro, anzi no!

Dopo la chiusura di Usaid, la grande agenzia umanitaria statunitense, molte realtà che operano in contesti di emergenza si trovano oggi in grande difficoltà. È possibile un nuovo paradigma di cooperazione? Lo abbiamo chiesto al professor Mario Molteni,
Aiutiamoli a casa loro? L’ambiguo slogan sbandierato soprattutto in chiave anti immigrazione potrebbe oggi rappresentare una questione vitale per milioni di persone che si sono viste chiudere i rubinetti di aiuti salvavita. La repentina e sconsiderata soppressione di Usaid da parte del presidente Donald Trump – il cui budget era di 40 miliardi e provvedeva al 47% della spesa per l’assistenza umanitaria globale – e la sospensione del sostegno economico a molte agenzie delle Nazioni Unite che operano in contesti di emergenza stanno letteralmente mettendo a rischio la vita di chi si trova in condizioni di grande vulnerabilità: dalle vittime delle guerre (Gaza, Ucraina, Sudan, Myanmar, Yemen, Haiti, solo per citarne alcune) ai milioni di profughi e sfollati, dalle moltissime persone colpite dalla crisi climatica e dall’insicurezza alimentare ai malati di poliomielite o di Hiv/Aids che si vedono interrotti i trattamenti antiretrovirali e così via… La lista sarebbe lunghissima e tragica. Un’intera e vasta rete di aiuti d’emergenza è al collasso.
Ma questo provvedimento criminale, così come i drastici e rapidissimi sconvolgimenti di tanti equilibri globali, provocati anche dai molti conflitti che feriscono il mondo e dal venir meno di tante istanze multilaterali, impongono riflessioni urgenti e probabilmente anche un cambiamento di paradigma in termini di aiuti e cooperazione. Molte ong stanno cercando faticosamente di correre ai ripari con altre forme di finanziamento per far fronte all’emergenza. Ma serve anche uno sguardo sul lungo periodo. E forse, appunto, un cambiamento di prospettiva.
Ne abbiamo parlato con il professor Mario Molteni, ordinario di Economia aziendale e Strategia d’impresa presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, fondatore di Altis, istituto internazionale di ricerca e formazione dedicata alla promozione della sostenibilità nel management di aziende e organizzazioni e nelle nuove iniziative imprenditoriali. Altis, a sua volta, ha dato vita nel 2010, insieme ad altri soggetti, alla Fondazione E4Impact, che supporta l’avvio e la crescita di nuovi business e start up in una ventina di Paesi africani, dove ha formato oltre duemila imprenditori e 40 mila piccoli coltivatori. Molteni è anche direttore del Piano Africa, lanciato dalla nuova rettrice della Cattolica, Elena Beccalli, all’inizio di questo anno accademico.
Professor Molteni, come vede lo scenario che si apre oggi con la chiusura di un’agenzia di aiuti umanitari così importante come Usaid?
«Nel breve periodo avrà un impatto molto grave e difficile da assorbire, con conseguenze che possiamo definire letteralmente letali, specialmente nei contesti più vulnerabili di guerra o di catastrofe climatica dove l’aiuto di emergenza è fondamentale per la sopravvivenza delle persone».
E in una prospettiva di più lungo periodo?
«Difficile dirlo in un contesto di cambiamenti così fluido. Se guardo alla nostra esperienza, il nostro approccio si è sempre concentrato sugli assi della formazione e della promozione dell’imprenditorialità locale. L’idea di fondo su cui ci siamo mossi, e che ci sembra la più efficace per promuovere sviluppo, è di aiutare le persone a fare impresa, creare opportunità di lavoro e generare ricchezza stabile, partendo dai bisogni e dalle richieste locali e cercando di far fronte alle necessità fondamentali. L’ottica chiaramente non è quella dell’emergenza che ha una sua specificità e necessita di altri tipi di interventi».
L’Europa, che è sempre stata un grande donatore nei confronti dell’Africa, può diventare maggiormente protagonista in questo nuovo scenario?
«Sì, a condizione che agisca come Europa, appunto. Il Global Gateway, ad esempio, può rappresentare un’opportunità interessante di creare maggiori connessioni in particolare tra l’Africa (per cui vengono stanziati 150 dei 300 miliardi previsti) e l’Unione Europea e anche reali prospettive di sviluppo infrastrutturale (e non solo) nel continente africano».
Anche l’Italia, però, ha elaborato un suo Piano Mattei…
«Non sarei così negativo su questo piano. Rappresenta un passo avanti nel senso che pone un’attenzione di sistema verso l’Africa e una mobilitazione di risorse, persone e network. E anche di imprese, che probabilmente non si sarebbero orientate verso l’Africa senza un quadro di riferimento. Imprese da cui potrebbero arrivare ulteriori fondi. Ovviamente, poi, ci dovrebbe essere un’attenzione alla responsabilità sociale, evitando atteggiamenti predatori».
Ma è possibile uscire da una logica coloniale, in cui l’aiuto diventa anche un modo per esercitare un soft power o peggio di imporre condizionamenti e controllo?
«È possibile e necessario. L’Europa – e in particolare alcuni suoi Paesi – si portano appresso un pesante retaggio coloniale. Occorre aprire una stagione nuova e superare anche un certo paternalismo. Per questo è importante costruire partnership autenticamente paritarie, rafforzando il dialogo e partendo davvero dalle istanze che ci vengono dall’Africa e non dalle proiezioni che noi facciamo sull’Africa».
Oggi però vediamo potenze alternative come Cina, Russia, Turchia e i Paesi del Golfo consolidare la loro presenza in Africa, anche attraverso programmi di cooperazione…
«Certo, ma anche grandi nazioni come la Cina che per anni sono intervenute in Africa con un atteggiamento spregiudicato e una straordinaria energia oggi stanno “ammorbidendo” e diversificando le proprie politiche nei confronti dei vari Paesi africani, anche per rispondere a malumori che sono sempre più evidenti dentro le società locali».
Che tipo di cooperazione è possibile fare a livello universitario? E perché la Cattolica ha deciso di dare vita a un “Piano Africa”?
«L’idea visionaria e coraggiosa della nostra rettrice Beccalli è di fare della Cattolica l’università europea con la più rilevante presenza in Africa. E in prima istanza abbiamo realizzato un monitoraggio di quanto stiamo già facendo. Che è molto! Ci siamo, infatti, resi conto che attualmente sono già in corso circa 125 progetti e iniziative in 40 Paesi e che abbiamo rapporti con un’ottantina di università. Ora si tratta di creare maggiori sinergie all’interno della Cattolica e di promuovere nuove iniziative».
In che ambiti?
«Ci sono molte possibilità.Chiaramente innanzitutto in campo formativo, con la possibilità di fare ricerca congiunta, di riconoscere diplomi agli studenti africani e occasioni di stage a quelli italiani, di creare più in generale una mobilità bidirezionale di docenti e studenti. Come E4Impact abbiamo operato soprattutto nei campi dell’agro-food, della sanità e della creazione di impresa, ma anche in ambiti come quello della risoluzione dei conflitti e della riconciliazione, perché sono le richieste che più frequentemente ci arrivano dai diversi contesti africani. Inoltre, è fondamentale inserirsi in strutture esistenti, aiutandole a qualificare il personale. A mio avviso, è il modo più efficace di usare le risorse, di arricchirsi reciprocamente e di promuovere realmente un cambiamento».
Spesso si usa dire che l’Africa è un continente di grandi bisogni ma anche di grandi opportunità. È così?
«Fuor di retorica è così. Anche se poi occorre distinguere. L’Africa è un continente di 54 Paesi con situazioni molto diverse e, purtroppo, con tanti contesti in cui, in questi ultimi anni, si sono moltiplicati guerre, conflitti, terrorismo e instabilità politica. Ma, d’altro canto, come si ripete spesso, l’Africa è anche un continente estremamente giovane, dove l’età media è attorno ai vent’anni contro i 48 italiani. C’è molta energia e ci sono grandi potenzialità. Che rappresentano altrettante opportunità sia per i giovani africani che per gli italiani. Bisogna però valorizzare il meglio che c’è sul posto, puntando sulle risorse umane e non solo su quelle materiali, senza pensare di imporre una logica per cui siamo noi a sapere quello di cui loro hanno bisogno, e allo stesso tempo valorizzando il meglio del nostro Paese, sia attraverso gli scambi e la cooperazione universitaria che attraverso la promozione di nuove logiche imprenditoriali, che siano eque ed efficaci per tutti».
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