Padre Pozzi dal Centrafrica: «Situazione sempre più grave»

Padre Pozzi dal Centrafrica: «Situazione sempre più grave»

Dalla Repubblica Centrafricana il racconto di padre Tiziano Pozzi, missionario betharramita nel nord-ovest del Paese: «I ribelli ci dicono: non deporremo mai le armi»

 

Per questo Natale, come i cinque precedenti, la Repubblica Centrafricana ha solo un desiderio: la pace. Questo Stato nel centro del continente nero da quasi sei anni è coinvolto in una guerra civile complessa, che ha costretto a scappare in altre regioni 643mila persone e spinto 570mila profughi oltre confine. Per il groviglio di interessi in campo, locali e internazionali legati alle risorse minerarie, capire cosa sta succedendo è difficile anche perché – fatta eccezione per qualche reportage (in Italia, due settimane fa, ne è uscito uno su L’Espresso) – le informazioni sono poche e sommarie. Di certo si sa che la situazione umanitaria è critica: qualche giorno fa un rapporto dell’Unicef, ha segnalato che un bambino su quattro è sfollato e 1,5 milioni di bambini hanno estremo bisogno di assistenza.

Nei primi tre anni del conflitto, si sono fronteggiati due schieramenti: la Seleka, coalizione composta da mercenari provenienti da Ciad e Camerun che dichiarava di perseguire gli interessi dei musulmani, e gli anti-balaka, corpi di auto difesa di credo cristiano. Anche se la coalizione Seleka si è sciolta formalmente nel 2014, non ha invece smesso di seminare violenza. I miliziani oggi sono raggruppati in quattordici gruppi che si stanno spartendo il territorio lottando fra loro. Tra le sigle di guerriglieri, l’Unione per la Pace (!) in Centrafrica (Upc) si è fatta conoscere per l’attacco terroristico sferzato il 15 novembre scorso ad Alindao, un villaggio nel sud del Paese. I miliziani hanno prima fatto razzia nella chiesa locale e hanno poi raggiunto e ucciso 60 persone nel campo profughi allestito dalla Chiesa. Vittime sono tanti cristiani e due sacerdoti tra i quali il vicario generale della diocesi di Alindao, monsignor Blaise Mada.

L’attacco sarebbe la risposta all’assassinio di un musulmano per mano degli anti-balaka, ma non è un problema religioso, più che altro – secondo tutti coloro che lavorano per la pace – i campi per sfollati presso le parrocchie cattoliche sono considerati punti di riferimento per i miliziani anti-balaka e di conseguenza, i sacerdoti e i vescovi sono visti come protettori degli avversari e fornitori di armi e munizioni. Il vescovo di Bangassou, monsignor Juan Jose Aguirre, ha spiegato anche, con una dichiarazione all’agenzia Fides  che «forze straniere vogliono fare in modo che i centrafricani combattano tra loro per poter mettere le mani sulle ricchezza del Paese ed aprire la strada all’Islam radicale al cuore dell’Africa».

Abbiamo chiesto un punto di vista sulla crisi anche al missionario betharramita padre Tiziano Pozzi, da oltre trent’anni sacerdote e medico nel villaggio di Niem nel nord-ovest del Paese, che – suo malgrado – ha una certa esperienza con colpi di Stato e guerriglia in Centrafrica. «In questi ultimi mesi la situazione va aggravandosi, soprattutto nella parte nord ed est del Paese. Ma anche Niem dal settembre 2017 appartiene al Centrafrica solo sulla carta geografica: da allora tutta la nostra zona è sotto il controllo del gruppo ribelle 3R. Partendo dalla frontiera col Camerun la prima autorità pubblica si trova a Bouar, vale a dire a 170 km di distanza…»

«In questo momento nel nostro villaggio ci sono una cinquantina di ribelli che non hanno neppure bisogno di girare armati, tanto è assoluto il loro controllo sul territorio. Il loro arrivo sta portando qui molti allevatori di etnia mbororo, la stessa dei ribelli. Arrivano con le mandrie di mucche, che necessitano di ampi spazi. Il risultato inevitabile è la devastazione dei campi della gente del villaggio che non può rivolgersi a nessuno per far valere il suo diritto di risarcimento».

«Purtroppo – conclude padre Tiziano – non si vedono vie d’uscita nell’immediato. Me lo ha confermato anche il capo dei ribelli che, negli ultimi mesi, ha avuto bisogno delle nostre cure dandomi l’occasione di una chiacchierata con lui. Mi ha detto che non si fida di nessuno, tanto meno delle Nazioni Unite e che non deporrà mai le armi. Non so se ha detto sempre la verità, ma temo che questa occupazione durerà a lungo».

 

Nella foto: una delle immagini della devastazione di Alindao diffuse dai testimoni