Gli ultimi cristiani di Libia

Gli ultimi cristiani di Libia

È uno dei luoghi più difficili per la Chiesa, ridotta ai minimi termini. Nel vicariato di Tripoli, restano tre frati minori e le suore di Madre Teresa. E un nuovo vescovo che si prepara a sostituire monsignor Martinelli

 

«Questa è la fine della mia missione. E se la fine dev’essere testimoniata con il mio sangue, lo farò». All’inizio del 2015, a febbraio, monsignor Giovanni Vincenzo Martinelli rispondeva così a un giornalista del Corriere Veneto che gli chiedeva se avesse paura. In Italia si parlava dello Stato islamico ormai “a sud di Roma”. Lui, al telefono da Tripoli, metteva in poche parole il suo carattere rapido e asciutto, ma anche testardo e fedele. Unico italiano rimasto nella capitale libica, ha sempre detto di non avere paura. A volte in questi anni, il suo tono al telefono si è fatto commosso: per la mancanza di libertà del suo popolo, per i drammi e le guerre che hanno sconvolto la Libia, che ha condiviso sempre e in qualsiasi situazione.

Alla fine di quest’anno si prepara la successione nel vicariato di Tripoli, uno dei luoghi attualmente più difficili per la Chiesa Cattolica. Il 10 luglio Papa Francesco ha nominato vescovo e coadiutore il maltese padre George Bugeja, 53 anni, francescano dei Frati minori come lo stesso Martinelli. A fine ottobre Bugeja è arrivato a Tripoli, dove non tornava da 28 anni. «Papa Francesco mi ha dato questo incarico di servire la Chiesa in Libia. Ho accettato e ringrazio il Santo Padre per la fiducia cha ha in me» ha detto a Mondo e Missione qualche giorno prima del volo che da Malta lo ha portato a Tripoli. «Parto per essere d’aiuto a monsingor Martinelli, che è molto malato» ci ha confessato. «Al momento vedo il mio ruolo come coadiutore come un tempo di noviziato, cioè un tempo di preparazione, per vedere, ascoltare, imparare. Sono certo che il Signore mi guiderà e avrò l’aiuto necessario dalla comunità cristiana presente». Monsignor Bugeja affiancherà Martinelli a Tripoli, diventandone poi il successore una volta che quest’ultimo, quasi 74enne, avrà lasciato l’incarico.

La comunità cristiana che ancora resiste in Libia è ridotta ai minimi termini. «In Cirenaica non ci sono più suore mentre stanno lasciando la regione la maggior parte dei filippini, che sono il cuore della comunità cristiana in Libia. A fine ottobre, nella capitale libica, è stato profanato per l’ennesima volta il cimitero italiamno. Un brutto segnale in un clima sempre più teso a livello internazionale.

Dall’ottobre del 2011, il mese in cui è stato ucciso Gheddafi, sono iniziati attacchi contro le minoranze religiose, proseguiti anche negli anni successivi fino al brutale assassinio da parte dei miliziani dello Stato Islamico di 21 cristiani copti nel febbraio del 2015. In un clima di totale instabilità, le autorità, invece di prendere misure per combattere questi atti di violenza, hanno chiesto alle comunità religiose di lasciare il Paese. Nella Cirenaica – riferisce il rapporto 2014 dell’associazione Aiuto alla Chiesa che soffre – tra il 2012 e il 2013 molte congregazioni sono state costrette ad abbandonare i propri conventi, anche dopo, come accaduto in un caso, quasi un secolo di presenza ininterrotta. «In Libia sono rimaste soltanto le suore di Madre Teresa» afferma padre Bugeja. «Le altre comunità religiose hanno tutte lasciato il Paese».

Per quanto riguarda i religiosi, oltre al vescovo sono rimasti tre frati minori. Nel 2010 i cattolici erano stimati nell’Annuario pontificio in 156mila. Tre anni dopo, nel 2013, erano diventati 13mila, la maggior parte dei quali filippini presenti nel Paese per lavoro. Negli ultimi due anni l’avanzata degli estremisti islamici ha colpito anche loro. «Oggi c’è una comunità filippina molto ridotta», conferma padre Bugeja «e qualche comunità proveniente da altri Paesi subsahariani».

A confermarlo è Gino Barsella, responsabile dei progetti nordafricani del Cir, il Centro italiano per i rifugiati, l’unica organizzazione non governativa internazionale ancora presente in Libia. «Dei duecentomila migranti in attesa di partire dalla Libia verso l’Europa almeno un terzo sono cristiani» afferma. «È però difficile individuarli perché non vogliono uscire allo scoperto. Vengono da Paesi come l’Eritrea, il Ghana e la Nigeria. Alcuni sono in luoghi controllati dai trafficanti, anche nella periferia di Tripoli e in questo caso anche noi del Cir non riusciamo a raggiungerli. Altri si appoggiano a connazionali già in Libia».

Il passaggio di consegne fra l’attuale vicario episcopale di Tripoli e il suo successore non sarà facile. Monsignor Martinelli è nato in Libia: a El Khadra, da famiglia veneta originaria di Camacici, frazione di San Giovanni Lupatoto (Verona). Fa parte insomma di quegli italiani reduci costretti a lasciare il Paese nordafricano. Dopo gli studi sacerdotali in Italia, è rientrato a Tripoli da prete nel 1971, immediatamente dopo “la “Rivoluzione Vede” del Colonnello Muhammar Gheddafi. In quegli anni difficili, prima della nomina a vescovo nel 1985, è stato testimone della cacciata degli italiani e ha vissuto il sequestro della Cattedrale di Tripoli trasformata in moschea. È rimasto durante la rivoluzione del 2011, la caduta di Gheddafi, la diffusione delle frange islamiche più integraliste: come un Mosé con le braccia alzate non ha mai messo di invocare il dialogo e di chiedere di pregare per la pace in Libia. Anche dopo la brutale uccisione dei 21 cristiani copti ha chiesto alla comunità internazionale di non rinunciare a tessere trame di dialogo con «un Paese molto diviso».

«In chiesa sono venuti a dirmi che devo morire» diceva in quei giorni terribili. «Ma io voglio che si sappia che padre Martinelli sta bene e che la sua missione potrebbe arrivare al termine. Ho visto delle teste tagliate e ho pensato che anch’io potrei fare quella fine. E se Dio vorrà che quel termine sia la mia testa tagliata, così sarà. Anche se Dio non cerca teste mozzate, ma altre cose in un uomo… Poter dare testimonianza è una cosa preziosa. Io ringrazio il Signore che mi permette di farlo, anche con il martirio. Non so fino a dove mi porterà questo cammino. Se mi porterà alla morte, vorrà dire che per me Dio ha scelto così… Io da qui non mi muovo. E non ho paura». A padre Bugeja chiediamo come si sente sapendo di dover lavorare in un contesto così difficile. “Penso che un po’ di paura l’avrò – risponde – Il Signore provvederà.”