La Cometa di Alan

La Cometa di Alan

«Ho ventidue anni, sono di Tacanà, mi chiamo Patricia e mio figlio Alan Fernando ha due anni e ha la leucemia…». In questa storia di una famiglia migrante raccontata da padre Angelo Esposito, missionario a Tacanà in Guatemala, le lacrime e la speranza dei poveri in questo Natale

 

Padre Angelo Esposito è un missionario della diocesi di Napoli a Tacanà in Guatemala. Pubblichiamo questa sua lettera, diffusa sul suo profilo Facebook in questi giorni, che a partire dalla storia di Alan e di sua madre Patricia racconta le lacrime e la speranza dei poveri in questo Natale.

 

«No, non ci si abitua mai al dolore, alla sofferenza, alla miseria, alla fame, alla morte… soprattutto a quella dei bambini!». Tante volte ho dovuto dare questa risposta, tante volte ho dovuto spiegare che i poveri non stanno “comodi” nella loro condizione, vorrebbero reagire, combattere, lottare contro una vita dura, miserabile, una vita che li schiaccia ogni giorno e che li fa camminare su strade piene di ostacoli, spesso insormontabili. I poveri non si abituano, hanno un grande coraggio, il coraggio di sperare sempre in un mondo diverso, un mondo dove le persone sono tutte uguali e dove ogni risorsa possa essere distribuita in maniera equa a ogni popolo, di ogni razza e di ogni religione. Un mondo dove vi sia il rispetto per l’uomo e per la natura, un mondo dove vi sia la giustizia e la pace. I poveri non si abituano a essere soli, abbandonati, discriminati, non curati. Loro muoiono prima di morire, conoscono il sapore e il valore delle cose anche se il dolore è il loro compagno di viaggio.

Era un pomeriggio come tanti altri: tanti impegni, le celebrazioni, le confessioni, le visite all’ospedaletto Los Angelitos, dove sono ricoverati numerosi bambini affetti da patologie legate alla malnutrizione. Mi trovavo davanti all’altare e sistemavo gli oggetti posti su di esso quando sento che qualcuno è entrato in Chiesa. Mi volto e vedo al centro della navata un gruppo di volontari dell’Associazione Hermana Tierra, che collaborano con me per la tutela delle famiglie povere, mi salutano e si avvicinano. Uno di loro tiene per mano una giovane donna che ha nel marsupio, avvolto e legato sulle spalle, un bambino con una mascherina sanitaria che gli copre il naso e la bocca. La giovane volontaria deve quasi trascinare la giovane per farla giungere fino a me. L’accolgo con un sorriso e subito, con slancio, accarezzo il capo del bambino e lo sfilo dal marsupio per prenderlo tra le braccia. Inaspettatamente, la reazione del bimbo non è quella di allontanarmi, piangere e tendere le mani verso la sua mamma, ma quella di cingermi il collo con le sue piccole braccia e poggiare la sua guancia sulla mia.

L’emozione per questo tenero gesto è molto forte, guardo la giovane e l’invito a sedersi su una panca. I volontari mi dicono: «Padre Angelo, aiutala, ha molto bisogno, te l’affidiamo!» e vanno via sorridendo, rincuorando la donna. La ragazza è seduta sulla panca, il capo basso, i lunghi capelli che le scendono sul volto, le mani abbandonate sul grembo. Le siedo accanto e mi accorgo che il piccolo si è addormentato sulla mia spalla. Prendo dalla sacrestia delle coperte che uso per i viaggi e vi sistemo il bambino sopra. Inizio la conoscenza con la donna e le dico: «Raccontami di te…» e lei, timidamente, inizia a parlare: «Ho ventidue anni, sono di Tacanà, mi chiamo Patricia e mio figlio Alan Fernando ha due anni e ha la leucemia…». Un colpo al cuore, un pugno nello stomaco e il sangue si gela nelle vene. Penso: “È terribile, tanti, troppi bambini sono affetti da questa orribile malattia… Signore, aiutami… aiutami ad aiutare!”.

Lei continua il suo racconto: «A diciannove anni, ho conosciuto Marino, l’amore della mia vita. Ci siamo innamorati e amati tantissimo, lui, era un ragazzo pieno di attenzioni e con un animo dolcissimo. Ogni suo gesto per me era pieno di tenerezza. Desiderava donarmi una vita diversa da quella che avevamo avuto nelle nostre famiglie. Eravamo entrambi poveri, senza un lavoro, senza una casa e così decidemmo di emigrare in Messico a Cancun. Avevamo paura di affrontare il durissimo viaggio, di attraversare il deserto e soprattutto avevamo il cuore attanagliato dalla tristezza al pensiero di dover lasciare la nostra terra. Abbandonare le nostre famiglie e i nostri amici è stato straziante, avremmo dato qualunque cosa per poter restare dove eravamo nati e cresciuti, ma non avevamo altra scelta: il nostro futuro senza un lavoro sarebbe stato impossibile. Ci prendemmo per mano e dicemmo addio a tutti e a tutto, anche al cielo, alle nuvole, alle montagne, ai torrenti e alle bellissime cascate che ci incantavano e allietavano con la freschezza dell’acqua che con il suo scroscio creava ogni volta una musica diversa.

Il viaggio fu faticosissimo, quasi sempre a piedi anche sotto la pioggia battente, ogni tanto un passaggio in un cassone di un fuoristrada, poi ancora attraversammo strade di montagna piene di massi, sentieri tra i boschi e campi. Rischiammo in ogni momento di restare sotto una frana o di essere fermati dai controlli dell’immigrazione che ci avrebbero fermati e rimandati a casa. Il sole in cima ai monti, quando c’era, era ardente e il freddo della notte ci gelava, non avevamo nulla da mangiare e abbiamo patito la fame e la sete. Abbiamo camminato fino a consumare le nostre scarpe… poi, finalmente, la frontiera. Un passaggio senza controlli, senza militari, un punto cieco dove riescono a passare in tanti ma, purtroppo, pur sempre rischiando, una volta giunti in Messico, di essere presi e rispediti indietro in quanto clandestini, o nel peggiore dei casi, arrestati e messi in prigione per dieci o quindici giorni, per poi essere rimpatriati.

In tanti avevamo passato la frontiera; eravamo stanchi, sporchi, sfiniti, demoralizzati, ma non ancora sconfitti. Quanto abbiamo pregato, quanto abbiamo supplicato perché potessimo giungere fino a Cancun! Ero sfinita, allo stremo delle forze, avevo paura dei controlli, mi lasciai cadere a terra e dissi: “Marino, amore mio, non ci vogliono, torniamo indietro…sai, tesoro, avrei voluto dirtelo in un altro momento: sono incinta, aspettiamo un figlio!” Marino mi abbracciò, mi strinse a sé e mi disse: “Patricia, questo è il dono più bello, più grande che Dio poteva farci e sai perché proprio in questo momento? Perché vuole darci la forza per andare avanti, la forza che scaturisce dall’amore che già da questo istante proviamo per questa creatura” Mi prese la mano e mi trascinò non so per quanto tra i sassi, sotto la pioggia e improvvisamente avvenne il miracolo: eravamo arrivati a Cancun, senza che nessuno ci fermasse. Sento ancora la stretta della mano di Marino nella mia, non mi avrebbe lasciata mai.

A Cancun chiedemmo al padrone di un ristorante se potesse darci lavoro. Lui si mosse a pietà e così fu deciso che Marino avrebbe dovuto pulire la cucina, lavare i piatti, i gabinetti e scaricare i furgoni della merce. A me, invece, toccò servire ai tavoli, riordinare la sala e lavare vetrate e pavimenti. Il lavoro era duro, umile, ma ci consentì di affittare una camera dove poter dormire e finalmente mangiare. A vent’anni, con l’aiuto di Dio, dopo un parto difficile, diedi alla luce Alan Fernando, era il 26 maggio 2017. Eravamo poveri, ma felici. Marino lavorava tantissimo, svolgeva anche le mie mansioni perché dovevo badare al bambino.

Ogni momento ringraziavamo Dio per averci benedetto con la nascita di Alan. La nostra gioia, però, durò poco: quando Alan compì sei mesi, Marino ebbe un malore, lo portai in ospedale dove gli diagnosticarono un’epatite fulminante, non ebbi neanche il tempo di stringerlo tra le braccia… solo in un soffio mi disse: “Parla di me ad Alan e digli che l’ho amato tanto!” Marino se ne è andato così, lasciandoci soli… Non sapevo cosa fare, così, quando il padrone del ristorante mi versò la misera paga di Marino, decisi di acquistare un biglietto per tornare a Tacanà dalla mia famiglia. Piansi per tutto il viaggio, ero disperata ma sapevo che Dio era con me, che mi avrebbe aiutata che mi avrebbe donato la forza per affrontare ogni cosa. Una volta a casa, tra le lacrime, abbracciai i miei cari.

Sono trascorsi molti mesi, Alan ha compiuto un anno; è un bambino gracile, delicato. Un giorno si è sentito malissimo. Con urgenza lo portiamo in capitale a Guatemala. Il medico del reparto di pediatria, dopo averlo visitato mi dice: “Signora, mi dispiace, ma suo figlio ha la leucemia, sta molto male e non credo passi la notte!”. Le mie gambe sono scosse da un tremito irrefrenabile, non riesco a pensare a nulla, nella mente mi rimbombano le parole del dottore… mio figlio morirà come è morto suo padre… mio Dio aiutami, non far morire Alan! Poi un altro pensiero agghiacciante: Alan non è stato battezzato, no, non può morire senza battesimo! Corro per il corridoio del reparto: “Mio Dio, il battesimo prima che muoia!”. Corro e non so dove andare, un’infermiera esce da una stanza e l’afferro per la divisa: “Signora, un prete, per carità chiami un prete, il mio bambino sta morendo deve essere battezzato, fate presto!”. L’infermiera chiama il cappellano dell’ospedale che accorre immediatamente. Entra nella stanza di Alan e in extremis gli amministra il sacramento. Ho pregato fino allo sfinimento e per miracolo, perché di miracolo si tratta, Alan è uscito fuori pericolo. Sono caduta in ginocchio e ho ringraziato il Signore tra lacrime e preghiere.

In ospedale gli hanno dato una terapia, continuamente devo portare il piccolo in capitale. Padre Angelo, la mia famiglia è povera e per andare e venire ci vogliono molti soldi e una notte di viaggio. Non ho più soldi per le cure e neanche la mia famiglia e, inoltre, mi hanno detto che ci vorrebbero altri interventi con macchinari e farmaci che in capitale non hanno. Aiutatemi padre, aiutate il mio bambino a non morire. Dio mi ha fatto incontrare voi… Lui vuole che mi aiutiate!!!».

Patricia alza il capo che per tutto il tempo del racconto ha tenuto basso, mi guarda con gli occhi pieni di lacrime, ma non una lacrima è scesa sul suo viso. Una forza d’animo che traspare da quello sguardo, una speranza, l’unica che la tiene ancora viva: spera in qualcuno disposto a tenderle una mano, disposto a condividere con lei quel dolore così grande per una mamma. Prontamente, animato da una forte commozione, le tendo entrambe le mani, la invito ad alzarsi e la stringo in un abbraccio, ogni parola sarebbe inutile e superflua. E allora, ecco le lacrime, i singhiozzi, i singulti. Tutto il dolore esce fuori. Ho il cuore in gola: ha solo ventidue anni, ha vissuto l’impossibile e ora ancora una tragedia da affrontare. Prendo fiato e la rassicuro: “Patricia, ora non sei più sola, io e i miei ragazzi ti accompagneremo ovunque sia necessario e Dio farà in modo di aiutarci ad incontrare le persone giuste e a trovare i mezzi per curare tuo figlio. Prendo Alan tra le braccia, lo sistemo nel marsupio, telefono ai volontari che prontamente vengono a prendere la donna per accompagnarla all’ospedaletto.

Salgo sull’altare e mi siedo di fronte la croce, guardo Gesù martirizzato, inchiodato al legno con la corona di spine conficcata nel cranio, guardo la ferita del costato sanguinante… Gesù ha le braccia spalancate, è lì sofferente che continua ad accogliere le nostre sofferenze… ha le braccia spalancate e dice: «Vieni, non temere, ho sofferto tanto e capisco ciò che provi, vieni, non fermare i tuoi passi, vieni tra le mie braccia, tocca le mie ferite, accarezza le mie dolenti membra. Io sono con te, sanerò le tue ferite, rigenerò le tue membra. Abbi fede, abbi il coraggio di sperare. Sono con te. Il vero miracolo è credere nell’impossibile».

Abbasso lo sguardo, il capo tra le mani e penso: «Quando si incontra Gesù, ti stravolge la vita!». Non posso scoraggiarmi, devo tentare, fare il possibile per questa mamma e suo figlio. Devo sperare come sempre nell’intervento della Provvidenza, quella Provvidenza che si è sempre manifestata tra le persone innamorate di Dio.

Come scrisse Jean Venier, “Ciascuno di noi è uno strumentista impegnato a suonare nella grande orchestra dell’umanità”. Spero ogni giorno, in ogni circostanza, anche la più dolorosa – come quella di salvare la vita di Alan – che ognuno sia disposto a suonare il suo strumento, anche se con sacrificio, per realizzare il più bel concerto che si sia mai ascoltato sulla Terra.

Tra un po’ sarà Natale e Alan rappresenta la Cometa. In questo tempo in cui si attende la nascita di Gesù Bambino non è un caso che sia proprio un bambino ad orientare i nostri passi verso l’Amore. Alan ci indica una strada alternativa a quella del consumismo e allo spreco. Questo bimbo con il suo dolore ci spinge a camminare sul sentiero della solidarietà, perché il suo desiderio è vivere! La sua mamma e lui sono come Maria e Gesù: cercano un posto dove stare, dove poter essere aiutati. Se tenderemo la mano a questo bimbo, nella mangiatoia, insieme a Gesù, nascerà anche lui. La domanda del Papa deve metterci in discussione: «Ho un amico povero?».

Diventiamo tutti amici di Alan! Regaliamogli la vita… una vita in salute, dignitosa e serena… Sì, avete inteso bene: non vuole un cellulare, un giocattolo, un capo firmato, le scarpe alla moda… questo bimbo vuole vivere! Seguiamo la “Cometa Alan”, illuminiamo nel giorno di Natale la povera capanna con una luce abbagliante, facciamo che Gesù Bambino sia felice per un altro bambino. Lui si identifica nei poveri e ci annuncia che l’Amore è l’unica cosa per la quale vale la pena vivere…
Dio benedica tutti, buon Natale,

padre Angelo