«Cristiani in Indonesia, così coi musulmani nonostante l’islamismo»

«Cristiani in Indonesia, così coi musulmani nonostante l’islamismo»

Il gesuita Franz Magnis-Suseno, missionario a Jakarta dal 1961, commenta sulla rivista «La Civiltà cattolica» l’islamizzazione crescente nel più popoloso Paese a maggioranza musulmana: «Cominciamo a imparare insieme che si può essere convinti della verità della propria fede senza per questo dover condannare, o persino giudicare, il credo altrui»

 

«È chiaro che l’Indonesia si andrà ancor più islamizzando. Per i cristiani del Paese questo significa che dovranno sviluppare ulteriormente la comunicazione con le loro sorelle e i loro fratelli musulmani. Non ci sono alternative».

È missionario in Indonesia dal 1961 il gesuita padre Franz Magnis-Suseno. Originario della Slesia è da decenni l’anima della Driyarkara School of Philosophy (oltre che dal 1977 anche citttadino del Paese). Da quest’osservatorio ha seguito le trasformazioni dell’Indonesia, compresa la transizione che – alla fine degli anni Novanta, al contrario di quanto accaduto in Medio Oriente con le primavere arabe – non vide affatto l’affermarsi dei fautori dello Stato islamico all’uscita di scena del regime di Suharto, ma la crescita di un contesto dove le stesse conversioni dall’islam non rappresentano uno scandalo.

Eppure oggi questa stessa Indonesia si trova a fare i conti con l’ascesa del populismo islamico, come ha mostrato negli ultimi mesi la vicenda dell’ex governatore di Jakarta, il cristiano Ahok, condannato per blasfemia dopo essere finito nel mirino dei gruppi radicali. Una svolta che è motivo di preoccupazione anche per tanti cittadini musulmani del Paese della Pancasila, i cinque principi che garantiscono gli stessi diritti a tutti gli indonesiani, a prescindere dal credo religioso. In una situazione così complessa, allora, come devono porsi oggi i cristiani? È la domanda che padre Magnis-Suseno si pone in un interessante articolo pubblicato nel nuovo quaderno – il numero 4022 – della rivista La Civiltà Cattolica.

Nella prima parte dell’articolo il gesuita indonesiano ripercorre brevemente la storia dell’islam indonesiano, i motivi che l’hanno portato ad essere additato come un modello di tolleranza, il fatto che nonostante il suo carattere fortemente maggioritario l’islam non sia mai stato consuiderato religione di Stato, le caratteristiche dei maggiori movimenti islamici locali. Racconta come «almeno al 95%» i 25 milioni di cristiani che abitano nel Paese (a fronte di 222 milioni di musulmani) sono comunità che «vivono, lavorano e praticano il proprio culto senza alcuna difficoltà e le stesse conversioni hanno luogo senza particolari reazioni».

Allo stesso tempo, però, padre Magnis-Suseno non nasconde che negli ultimi dodici mesi qualcosa è profondamente cambiato e che la forza di attrazione dei gruppi radicali nei confronti delle giovani generazioni si sta facendo preoccupante.Di qui la domanda: come porsi da cristiani in Indonesia di fronte a questa situazione nuova?

La risposta – scrive il gesuita nell’articolo pubblicato su La Civiltà Cattolica – può essere solo un salto di qualità nei rapporti tra cristiani e musulmani. Spiega come ancora cinquant’anni fa in realtà la conoscenza e la comunicazione con i musulmani in quanto tali fossero quasi del tutto assenti. I cristiani indonesiani si facevano forza del fatto che la maggioranza dei propri concittadini «non voleva attribuire all’islam un ruolo negli affari di Stato e si considerava più giavanese che musulmana. Essendo la maggioranza, si sentiva “protetta” da quella che riteneva fosse una minaccia islamica».

Questa via sostanzialmente laicista – osserva – iniziò ad andare in crisi negli anni Settanta, quando «a causa delle continue violazioni dei diritti umani, un numero sempre maggiore di cattolici iniziò a sentirsi a disagio per il sostegno dato al governo del presidente Suharto, nella speranza che li proteggesse dall’islam. Anch’essi pensavano che un rapporto con l’islam dove ci fossero un vincitore e uno sconfitto – ciò che va bene per i cattolici non va bene per i musulmani, e viceversa – non offrisse alcuna prospettiva per il futuro della minoranza cristiana. Ritenevano invece che si dovesse costruire un rapporto vincente per entrambe le parti, ossia relazioni di fiducia con il “vero” islam. E in questo erano sostenuti da numerosi intellettuali musulmani e leader religiosi pluralisti e dalla mentalità aperta».

Così sono finalmente potute nascere esperienze di amicizia vera «con parrocchie che invitano i vicini musulmani alle loro feste e contribuiscono alle celebrazioni musulmane. E in molte congregazioni e ordini religiosi rientra nel programma di formazione una settimana o due di esperienze in una scuola coranica». Passi resi possibili dalla teologia delle religioni proposta dal Concilio Vaticano II, che «è riuscito a evitare le due trappole dell’esclusivismo e del relativismo».

Proprio questa – secondo padre Franz Magnis-Suseno – è la strada da intraprendere con ancora più forza oggi, per smontare alla radice il germe dell’integralismo. «Cominciamo a imparare insieme – scrive – che si può essere convinti della verità della propria fede senza per questo dover condannare, o persino giudicare, il credo altrui. Questo significa anche non sentirci più minacciati per il fatto che ci sono persone che aderiscono sinceramente alla propria fede e sono molto diverse da noi. Così, una delle ragioni che è alla base della violenza fra le religioni – la sensazione che l’esistenza degli altri minacci la rivendicazione dell’universalità della nostra fede – perde vigore».

Questo – continua il missionario gesuita – non significa abdicare al compito di evangelizzare. «Missione – commenta Magnis-Suseno – non significa importunare gli altri sul piano delle loro convinzioni personali – che dovremmo sempre rispettare -, e ancor meno indurre la gente a farsi battezzare. Tuttavia, se una persona verrà a interrogarci sulla fonte dell’amore che diffondiamo, condivideremo con essa Gesù, e ci rallegreremo se poi qualcuno desidererà diventare membro della nostra comunità e chiederà di farsi battezzare»

«C’è, però, una condizione che dobbiamo soddisfare: essere umili – continua il gesuita indonesiano -. I cristiani diventano missionari non perché sono migliori degli altri, ma perché il Signore li ha scelti nonostante i loro – talvolta gravi – limiti personali. Alcune nostre comunità devono ancora imparare a evitare tutto ciò che sa di trionfalismo. Non dobbiamo far sentire arretrati o inferiori i musulmani. Saremo accettati dalla maggioranza musulmana, se rientriamo nel loro panorama culturale, se il cristianesimo non si paluderà dello spirito di superiorità occidentale».

Cita in particolare un esempio pratico: «In un ambiente islamico non dovremmo, come spesso accade, costruire delle statue così grandi da entrare nel Guinness dei primati. Dovremmo evitare ciò che agli occhi di un musulmano ha l’aria di una provocazione. Finché ci adatteremo a un contesto in cui i musulmani si sentono a loro agio, saremo accettati senza difficoltà».

Infine l’invito a percorrere insieme la strada della non violenza e del perdono. Padre Franz Magnis-Suseno cita in proposito come «una grazia per tutti» il versetto della sura 21 del Corano in cui del Profeta dice: «Non ti mandammo, se non come misericordia per il creato». «Le religioni – commenta – dovrebbero sentirsi unite nella consapevolezza di essere chiamate a farsi riconoscere come misericordia, e dunque come un dono che favorisce l’amore, il perdono, la compassione. Potremmo utilizzare questo versetto per creare una coalizione tra i popoli di ogni credo religioso, consapevoli che nella religione non ci dev’essere posto per la gelosia, l’odio, la vendetta e l’arroganza. Un movimento di questo tipo dovrebbe concordare su tre punti: il rifiuto per principio della violenza nel nome delle religioni; vivere e mettere in pratica le nostre religioni in modo da non incutere timore; creare ambienti in cui le persone e le comunità di ogni credo religioso possano vivere e praticare il culto senza paura».