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Dal Darfur all’Iraq: sei nuove «giuste» tra le nazioni

L’8 marzo nel Giardino dei Giusti di Milano verranno piantati sei nuovi alberi con incisi i nomi di altrettante donne coraggiose – per lo più provenienti da Asia, Africa e Medio Oriente – che combattono senza sosta per il riconoscimento dei propri diritti nei loro Paesi. Ecco le loro storie.
Sei donne per festeggiare l’otto marzo. A Milano infatti, proprio nella data simbolica della festa della femminilità, l’associazione Gariwo-Foresta dei Giusti darà vita a una cerimonia tutta «rosa» per rendere omaggio a quelle donne che si sono distinte nella battaglia per il riconoscimento dei loro diritti sociali e politici. Per l’occasione, nel Giardino dei Giusti a Monte Stella – nato nel 2003 su iniziativa dello scrittore Gabriele Nissim e che raccoglie simbolicamente in una «foresta» i nomi di coloro che hanno lottato contro i crimini dell’umanità – saranno piantati sei alberi con incisi i riferimenti di altrettante donne, giovani e anziane, provenienti da diversi paesi del mondo. Le loro storie, in effetti, sono diversissime tra loro nella genesi come nello sviluppo, eppure nelle biografie di queste donne si ritrova uno stesso e comune senso di responsabilità nei confronti della società. Tra i nomi che figureranno tra i giusti delle nazioni dal prossimo 8 marzo, per esempio, c’è quello di Halima Bashir, un medico sudanese che ha denunciato più volte gli orrori del conflitto del Darfur, nel quale sono morte circa 300mila persone e che per questo è stato definito dalla corte dei diritti umani un «genocidio». Bashir ha accusato il governo di Khartoum di essere responsabile delle atrocità commesse nello scontro arabi e africani nella zona e per questo è tuttora perseguitata dal governo del suo Paese. La donna, che ora vive a Londra sotto copertura, nel libro-intervista Tears of the Desert ha raccontato la sua esperienza presso un piccolo ospedale nel nord del Darfur dove si è specializzata nella cura delle decine di ragazze vittime di violenza da parte dei militari. Per la sua attività Bashir stessa è stata rapita, maltrattata e violentata ma non ha smesso la sua opera tanto che nel 2010 ha ottenuto il Premio Anna Politkovskaya per le donne che difendono i diritti femminili nelle zone di conflitto: «Continuare a parlare è l’unica cosa che posso fare per il mio popolo. Ho scritto questo libro per raccontare quel che ho visto alle donne del Darfur». Tutt’altra storia – che con la precedente condivide però il prestigioso premio Politkovskaya, ottenuto in questo caso nel 2014 – quella di Vian Dakhil la donna «più ricercata» dall’Isis la cui taglia sulla testa sale ogni qual volta la fuggiasca riesce a mettere in salvo donne e bambine da rapimenti, torture e stupri da parte dei jihadisti. Dakhil infatti è un’irachena – che ha dedicato la vita a mettere in salvo gli appartenenti alla minoranza Yazidi perseguitati o costretti alla conversione dallo stato islamico, il cui unico rappresentante in Parlamento è Dakhil stessa. Tra i beneficiari dell’azione della “giusta” sono soprattutto le donne alle quali spesso viene imposto un matrimonio forzato con i miliziati dello Stato islamico. Nel 2014 la donna è sopravvissuta a un incidente aereo – poi rivendicato dall’Isis – sul monte Sinjar mentre portava aiuti umanitari ai profughi della sua etnia: «Mi vedo un po’ come Emmeline Pankhurst delle Sufragette. Questa è la lotta del XXI secolo». Insieme a loro un albero ricorderà anche le due «madri coraggio» Felicia Impastato e Azucena Villaflor che – l’una dalla Sicilia, l’altra dall’Argentina – sfidarono il potere locale per conoscere e protestare contro la sorte dei figli uccisi per aver manifestato le proprie idee. Affianco anche l’avvocatessa indiana Flavia Agnes, che – lasciatasi alle spalle un matrimonio violento e dopo aver conseguito la laurea in legge – ha fondato l’organizzazione non governativa Majilis e offrre pareri legali a oltre 50mila donne di qualsiasi ceto e religione. Ma più giovane tra i giusti nominati l’8 marzo è una ragazza afghana di vent’anni che è sfuggita al matrimonio combinato grazie al rap. Sonita Alizadeh, infatti, è originaria di Herat ma, emigrata a Tehran, ha iniziato a frequentare un’associazione no profit che le ha insegnato a leggere, scrivere e… cantare. Grazie all’incontro con una regista iraniana, Sonita ha girato i suoi primi video musicali e – a insaputa della famiglia – li ha fatti circolare sul web conquistando un buon numero di fan. Proprio quando la sua carriera avrebbe potuto decollare, però, la madre la informa del fatto che – proprio come succede al 15% delle adolescenti afgane nonostante la norma presidenziale che vieta il traffico di spose bambine – avrebbe dovuto sposarsi al prezzo di 9mila dollari: una somma che la famiglia avrebbe a sua volta usato per comprare una moglie al fratello. Solo grazie alla canzone Brides for sale  (qui il video) – composta per l’occasione – Sonita è riuscita a scampare al suo destino: la composizione infatti ha fatto il giro del mondo ed è stata ripresa persino dalla tv afgana tramite la quale è arrivata alle orecchie dei genitori, che alla fine hanno capito la sua posizione e le hanno permesso di partire per gli Stati Uniti dove nel frattempo aveva vinto una borsa di studio. A chi le chiede se è arrabbiata con i suoi genitori, risponde: «So che mia madre ha cercato di vedermi, ma so che è stata obbligata a chiudere gli occhi per via della povertà e della tradizione che le impedivano di vedere un’altra strada». Ecco perché la battaglia di Sonita contro il traffico di spose – un problema che riguarda molte delle sue amiche afgane – non si esaurisce e continua anche oltreoceano.

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