Dialogo in Corea, l’esame per Moon

Dialogo in Corea, l’esame per Moon

È il presidente sud-coreano il vero protagonista della svolta che porterà all’incontro tra Trump e Kim Jong-un il 12 giugno. Ma tra i tre è anche il leader politico che si sta giocando la posta più alta in questo negoziato

 

Poco più di un anno fa, il 10 maggio 2017, in Corea del Sud Moon Jae-in accedeva alla carica presidenziale senza incertezze, spinto da un’ondata di consensi e di speranze. Cattolico, avvocato e attivista per i diritti civili, su di lui si concentravano naturalmente le speranze dei sudcoreani di evitare un conflitto con il Nord che era sembrato pericolosamente prossimo e di ripristinare una morale di governo gravemente incrinata dal predecessore, la signora Park Geun-hye, costretta a abbandonare ruolo e vita pubblica dall’accusa di corruzione e interesse privato che l’ha portata davanti ai giudici dai quali si attende una sentenza definitiva.

Pacifista convinto – tra più determinati della generazione emersa dopo la fine della serie di regimi militari che fino a metà degli anni Ottanta avevano caratterizzato la vita del Paese, propiziandone lo sviluppo ma a prezzo di repressione e autoritarismo – Moon ha sicuramente beneficiato del ruolo della Chiesa cattolica nel progresso democratico e sociale ancora in corso, nella direzione di ridurre profitti e ineguaglianze a costo di raffreddare la corsa ai primati produttivi e tecnologici. Non ultimo, lo stesso presidente era già stato parte attiva nella “politica del sole” che tra la fine degli anni Novanta e i primi del nuovo secolo consentirono sotto due predecessori un riavvicinamento al Nord che aveva fatto prefigurare una riunificazione prima del sostanziale fallimento.

Di quell’esperienza Moon oggi è erede, non solo sul piano ideale ma anche concreto. Fin dal suo giuramento, quando ha indicato con chiarezza la sua volontà di recarsi a Pyongyang quando fossero emerse “le giuste circostanze”. Una presidenza quindi, la sua, che – come ribadito addirittura dall’ambasciatore nordcoreano a Pechino dopo la sua elezione – riflette “la volontà di pace” dei sudcoreani.

Le difficoltà di questo percorso, tuttavia non sono ignote a Moon Jae-in e anche di questi tempi emergono domande sui limiti del suo impegno. A Seul ci si chiede se e entro quali margini la sua volontà di dialogo e di pace sia strumentalizzata dal regime di Pyongyang. Le svolte e gli avvitamenti dei rapporti intercoreani estesi a Stati Uniti e Cina hanno infatti più volte messo in difficoltà Moon, la cui fama oscilla tra un candidatura al Premio Nobel per la Pace a quella di “ventre molle” di una trattativa estenuante basata sulla constante minaccia di un conflitto catastrofico che proprio la sua volontà di dialogo rende inefficace e sottoposto alla determinazione dell’alleato statunitense e del rivale nordcoreano.

In parallelo agli incontri “storici” con Kim Jong-un del 27 aprile e del 26 maggio, Moon Jae-in ha dovuto porsi nel ruolo di mediatore tra Pyongyang e Washington esponendosi in prima persona davanti a un alleato americano che non guarda con simpatia al sua profilo ideologico e alla sua ostilità a un’ulteriore militarizzazione del suo Paese. Più volte, è stato smentito dal Nord quando ha segnalato volontà di disarmo e di dialogo di Pyongyang come “cosa fatta”, anche davanti all’alleato americano.

Solo le prossime settimane potranno dire se il suo impegno ma anche la sua cautela daranno i frutti sperati – magari con uno storico accordo sulla fine formale della situazione di conflitto mai sancita da un trattato di pace dopo il 1953 – oppure se sarà scavalcato dai “falchi” Trump e Kim, mettendo in gioco non solo il suo prestigio e la prospettiva del Nobel ma forse anche la sua carica istituzionale. In una Corea del Sud distratta dagli scandali, dalla recessione e da disuguaglianze sociali che nemmeno la popolarità e il “glamour” dei suoi idoli pop riescono a far dimenticare, un successo del presidente darebbe un orgoglio e prospettive nuove. Un “nulla di fatto” durante l’incontro previsto il 12 giugno a Singapore tra Donald Trump e Kim Jong-un ne accentuerebbe – al contrario – l’idea di debolezza e eccessiva accondiscendenza che viene accreditata dai suoi rivali politici, ancor più accentuata dal suo relativo impegno interno davanti all’imponenza delle sfide internazionali.