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Fare festa nonostante tutto

Sei giorni trascorsi a Rajarampur sono stati più che sufficienti a farmi quasi dimenticare il pasticcio politico, istituzionale e sociale in cui si trova il Bangladesh. Rajarampur è una località appena fuori dalla città di Dinajpur, dove nel 2000 il PIME ha costruito un santuario intitolato a Maria Regina del Rosario. Immerso nella campagna, lontano da strade rumorose, il santuario è semplice, bello, circondato da alberi, fiori e “murali” religiosi, accanto a un laghetto che rispecchia il cielo. Ero là per guidare il ritiro spirituale di due diaconi, Roton Richard Linduar e Topon Das, che si preparavano all’ordinazione presbiterale nella diocesi di Dinajpur.

Abbiamo vissuto giornate intense, serene, lasciando fuori le distrazioni, i cellulari e i giornali… Poi, terminato il “ritiro”, ho sfogliato i numeri più recenti del quotidiano “The Daily Star”, con la timida speranza che qualche cosa in Bangladesh avesse incominciato a sistemarsi. Invece…

Il “Consiglio” che governa il Paese, grazie al consenso raggiunto fra gli autori della ribellione, è sempre più spesso accusato di parzialità; tutti vogliono che sistemi con energia i soprusi, ovviamente quelli degli “altri”; dispone di “forze dell’ordine” screditate e di pochi sostenitori. Vari “comitati”, creati per mettere a confronto posizioni diverse e far emergere elementi di consenso su punti fondamentali della riforma, hanno il fiato corto e raggiungono accordi con troppe “riserve”. È in corso una specie di “tiro alla fune” non con una, ma con cinque, sei, dieci funi, ciascuna tirata in una direzione diversa. La violenza non è solo fra partiti, ma anche al loro interno, le vendette continuano, e ora si ammette che la delinquenza comune è aumentata. I “capi” di varie “gang” fuorilegge che controllavano droga, trasporti, appalti, e molto altro, eclissatisi o fuggiti all’estero, sono ritornati e si affrontano per riconquistare le “loro” aree… È entrato nel mirino anche il gruppo religioso “Ahmadiya”, che si definisce islamico. I musulmani tradizionali li ritengono eretici, e chiedono a gran voce che il governo li dichiari “non musulmani” e che solo a queste condizioni sia permesso loro di avere locali di culto, che in nessun modo potranno essere chiamati “moschee”. Non solo, mentre gustavo la pace delIe giornate al Santuario, qualcuno ha dato il via a iniziative di tipo terroristico incendiando autobus, auto, sedi di partiti, e piazzando “bombe carta” negli ambienti più disparati, fra cui la cattedrale di Dhaka, dove una bomba è esplosa (senza danni rilevanti) e un’altra no. Obiettivo? Creare tensione e confusione. Da ultimo – per ora – è arrivata anche la sentenza del processo all’ex primo ministro Sheikh Hasina, condannata a morte con un processo che, secondo organismi ONU, non ha rispettato i requisiti internazionali della giustizia, perché è stato realizzato in absentia, e senza una difesa adeguata.                                                        Insomma, una situazione preoccupante. E tuttavia mi ha offerto una lezione.                                                                                                 Sappiamo che i tribali hanno una vita dura, facilmente vengono imbrogliati e sfruttati, e certamente ne soffrono; ma spesso fra noi missionari commentiamo con stupore che, nonostante tutto, sanno fare festa e gustarla!

Ne ho fatto esperienza in occasione dell’ordinazione presbiterale di Ropon e Topon il 14 novembre, con molta folla presente, e ancora di più, il 15 e il 17 novembre, quando hanno celebrato la loro Messa di ringraziamento (in Italia diciamo “prima Messa”) nelle rispettive parrocchie di origine con villaggi interi che vi hanno potuto partecipare. In queste circostanze la gioia era “sprizzante”. Tempo buono, preparazione accurata (e dove non lo è, si rimedia abilmente senza tante storie…) canti e danze quasi ininterrotti. Non per far vedere quanto sono bravi i suonatori o le danzatrici, ma per esprimere con armonia la bellezza di ciò che accade, “accompagnando” l’evento e la gioia di chi partecipa. Un scintillante tripudio di colori, fiori, musica, sorrisi, e poi tutti invitati al pranzo! Qualcuno obietta che in queste occasioni si fanno troppe spese, ed è vero in un certo senso. Ma io penso che chi le organizza, o vi prende parte, sia ben consapevole che la vita è dura, che la povertà a volte “morde”, e che la festa è soltanto un breve intervallo fra mille fatiche che presto si faranno di nuovo sentire. Tutti sanno anche che le cose possono mettersi male per il Paese, specie se prevarranno partiti settari o razzisti. Ma forse proprio perché lo sanno bene, sentono il bisogno di “andare oltre”, in certe occasioni, per non lasciarsi travolgere dalle fatiche, dal male e dai problemi.

«Dove andremo a finire?», ci si chiede. Non lo sappiamo, ma oggi abbiamo qualche cosa di bello fra noi, anzi, tante e tante cose belle. Accogliamole, cantiamole, danziamole, gustiamole: sono doni di Dio, sono la nostra preghiera. Se non lo facessimo, le cose migliorerebbero?      

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