La lotta per la terra dei piccoli agricoltori in Myanmar

La lotta per la terra dei piccoli agricoltori in Myanmar

Chi sono i “padroni della terra” in Myanmar? Come sostenere i piccoli agricoltori? L’esperienza di New Humanity International, portata ieri in Senato, in occasione della presentazione del Rapporto della Focsiv sul Land Grabbing nel mondo

New Humanity International lavora in Myanmar dal 2002, inizialmente grazie a un accordo con il Ministero dell’Agricoltura e concentrando quindi i suoi sforzi nel settore dello sviluppo agricolo. Pur avendo nel corso degli anni ampliato l’ambito di intervento, avviando diversi progetti in ambito educativo e dell’inclusione sociale, l’agricoltura è rimasta uno dei pilastri della politica di intervento nel Paese. Non può essere altrimenti in un Paese dove ancora oggi l’agricoltura costituisce il 32% del PIL, occupa il 56% della popolazione e costituisce il 21% delle esportazione del paese. La crescita economica e il miglioramento del benessere sociale nel pase deve andare pari passo con un avanzamento nel settore agricolo.

Il recente colpo di Stato nel febbraio 2021, ha portato a una crisi di tutti i settori economici, inclusa l’agricoltura. La moneta locale, il kyat, ha subito un deprezzamento senza precedenti, del 60%. I costi dei prodotti legati all’agricoltura hanno subito un aumento drastico, per fare un esempio il costo del gasolio è aumentato del 100% e quello dei fertilizzanti del 150%. A questo quadro economico si aggiunge una situazione di instabilità politica e insicurezza: secondo i dati ufficiali delle Nazioni Unite, dall’inizio del colpo di Stato si contano 695.000 sfollati interni, arrivando a un numero totale di sfollati che per la prima volta supera il milione. Persone che sono state costrette ad abbandonare le proprie case e le proprie terre, col rischio che le stesse siano nel frattempo occupate dai militari o destinate ad altri usi, come accaduto nel 2017 con le terre abbandonate dai circa 670.000 rifugiati Rohinga che dal Rakhine sono scappati in Bangladesh.

È difficile misurare la portata del fenomeno del Land Grabbing in Myanmar in quanto non esistono dati affidabili né un registro nazionale delle acquisizioni. Tuttavia è certo che si parli di milioni di acri, e quindi di un fenomeno che interessi milioni di persone. Le stime fatte dai principali enti di ricerca parlano di cifre comprese tra i 5 ed i 6 milioni di acri confiscati, a cui si dovrebbero sommare le terre abbandonate dalle centinaia di migliaia di sfollati e occupate dal governo.

La legge che regola il diritto sulla terra in Myanmar trova il suo fondamento normativo nell’art. 37 della costituzione, che afferma che «Lo Stato è il proprietario ultimo di tutte le terre e di tutte le risorse naturali sul suolo e nel sotto suolo, sopra e sotto le acque e nell’atmosfera dell’Unione». Se è vero che il riferimento alla proprietà delle terre da parte dello Stato si ritrova nella costituzione di molti Stati, quello che manca nella costituzione e nelle successive leggi in Myanmar è la definizione di forme di tutela nei confronti dei privati a cui viene concesso il diritto d’uso, e le condizioni per le quali tale diritto possa essere infranto in nome dell’interesse pubblico. Le legislazioni introdotte dai militari, soprattutto a partire dal colpo di Stato del 1988, hanno anzi tolto ai proprietari le precedenti protezioni contro l’esproprio previste durante il periodo coloniale. Le due leggi principali sono del 2012, la “Farm Land Law” e la “Vacant, Fallow and Virgin Land Management Law”. Quest’ultima sancisce che le terre non occupate, incolte o vergini siano a disposizione del Governo per allocazione pubblica o privata. Considerando che tali terre occupano circa 20 milioni di ettari, il Governo ha il diritto di disporre di circa 1/3 del Paese. L’ong Public Legal Aid Network stima che l’82% di queste terre appartenga a minoranze etniche, il cui uso consuetudinario non era riconosciuto dalla legge del 2012.

Un importante processo di revisione normativa è stato avviato dal governo democratico eletto nel 2015, che ha dato priorità alla questione terra. A partire dal 2018 in particolare, seppur con ancora molti limiti, ha introdotto nuove norme per consentire agli agricoltori di acquisire il diritto all’uso delle terre consuetudinarie. Purtroppo in seguito al colpo di Stato del febbraio 2021 il processo di revisione normativa è stato interrotto, e il tema dei diritti sulle terre rimane ancora aperto.

L’incertezza legale, il mancato riconoscimento delle consuetudini delle minoranze etniche nell’uso e nelle relazioni con la terra, il riconoscimento delle risorse pubbliche come proprietà del  regime di stato coniugato con il protagonismo dello stato in tutte le sfere di sviluppo economico e sociale, hanno portato a molte violazioni dei diritti degli agricoltori,  allo spostamento di popolazioni , al mancato diritto di ritorno sulle terre ancestrali perpetuando la condizione di sfollati e rifugiati di  molta gente.

Il 57% delle terre confiscate sono “terre consuetudinarie”, terre di proprietà delle comunità indigene e amministrata secondo le loro usanze, in contrasto con il possesso legale solitamente introdotto durante i periodi coloniali. Il 30% sono terre il diritto sulle quali era stato acquisito da uso o occupazione, mentre 8% erano terre i cui diritti erano stati legalmente acquisiti dai proprietari.

Le confische nella maggior parte dei casi avvengono senza preavviso né consultazione con le comunità e senza che sia prevista alcuna forma di compensazione. Anche quando esiste un diritto legale sulla terra, il risarcimento è spesso minimo e non sufficiente a compensare i contadini della perdita.

Il Tatmadaw, l’esercito  è il principale protagonista, responsabile del 47% delle confische delle terre. A seguire i dipartimenti del governo, responsabili del 18%, le compagnie private nazionali, 13,9%, le autorità locali, 5,8%, e le compagnie straniere col 4,4%. Tra gli altri soggetti si trovano i gruppi etnici armati e altri soggetti pubblici.

I settori principali a cui sono collegate le confische o il mancato riconoscimento delle consuetudini locali includono:

– Progetti di infrastrutture. Tra questi sono emblematici il caso della costruzione della Asian Highway, che percorre il Myanmar per 1.408 km collegandolo a sud con la Thailandia e Nord con l’India, e il caso della costruzione della diga del fiume Salween, nel nord dello Stato Shan, frutto di una joint venture tra governo birmano e una compagnia cinese, per causa della quale le comunità in più di 60 villaggi hanno perso la loro terra e le loro case.

Estrazione di risorse naturali, in particolare miniere d’oro

– Progetti  agricoli, con particolare riguardo alla coltivazione di alberi da gomma o tek. Un esempio è il caso dell’azienda birmana per la produzione della gomma “Sein Wut Hmon”, responsabile di uno dei maggiori espropri terreni avvenuti nello Stato Shan. In questo caso i responsabili dell’azienda si sono recati sui campi accompagnati dai militari, senza consultazioni e senza preavviso, e nella maggior parte dei casi non sono stati riconosciuti risarcimenti alla popolazione.

Militarizzazione, inclusa la costruzione di nuovi campi militari o la costruzione di case o progetti commerciali per le famiglie dei militari. Nel 2004 i militari hanno confiscato migliaia di acri di terra nello stato Shan con lo scopo di realizzare un progetto a favore dei veterani militari. Anche in questo caso i contadini sono stati considerati non legittimi proprietari della terra e dopo anni di rivendicazioni ancora non hanno ottenuto nessuna compensazione.

Nell’ambito della campagna “Abbiamo riso per una cosa seria” promossa da Focsiv, New HUmanity International ha avuto l’opportunità di ampliare il programma di sviluppo agricolo nello Stato Shan che abbiamo avviato ormai da qualche anno, estendendolo ad altri 43 villaggi.

Il progetto si compone di 2 pilastri fondamentali: da un lato la formazione agricola, dall’altro i training sulla proprietà delle terre.

I training agricolo specializzati che vengono proposti grazie al progetto hanno il duplice scopo di migliorare la produzione agricola e di contrastare il fenomeno della deforestazione nei villaggi montani delle provincie di KyaingTong e Taunggyi, dove molti terreni non sono coltivati in maniera efficiente a causa della loro pendenza e della bassa qualità del terreno. Abbiamo costituito in 42 villaggi gruppi di agricoltori che, attraverso il metodo partecipativo delle Farmer Field School, partecipano a training agronomici sul metodo SALT (Sloping Agricultural Land Technology). Si tratta di un metodo originariamente ideato nelle Filippine per favorire la coltivazione su terreni in pendenza e caratterizzati da un alto tasso di erosione del suolo in seguito ad attività di deforestazione non controllate. Grazie all’applicazione di questa tecnica, le famiglie potranno sia imparare nuove tecniche di coltivazione, sia affiancare l’attività agricola ad attività di riforestazione su piccola scala, selezionando specie agroforestali come alberi di macadamia, melo selvatico, avocado, tamarindo e mango.

Tutti i contadini che partecipano alla formazione agricola, partecipano anche a corsi sulla proprietà delle terre. Abbiamo iniziato ad organizzare questa attività nel 2018, approfittando dell’apertura avvenuta in seguito alla revisione del sistema normativo. I training iniziano quindi con un’introduzione del quadro normativo, per illustrare ai contadini i diversi tipi di classificazione della terra e le leggi che li tutelano. Procediamo poi a fare insieme a loro una mappatura del villaggio per definire i confini dei terreni e verificare la categoria in cui sono classificati, individuando i diritti che possono esercitare. Infine li accompagniamo nel processo di registrazione.

Proprio settimana scorsa la nostra agronoma ha visitato una comunità di villaggio che ha seguito il training per la proprietà delle terre nel 2020. Si tratta di una comunità di 203 famiglie, quasi tutte vivono di agricoltura di sussistenza coltivando mais, riso e fagioli. Quando li abbiamo incontrati nessuno aveva in mano un documento di proprietà delle terre, anche se tutti pensavano di esserne proprietari semplicemente per il fatto che quelle stesse terre erano arate e coltivate dalle loro famiglie da generazioni. Quando hanno realizzato che senza una registrazione le loro terre erano considerate “inoccupate”, e quindi a rischio di esproprio, tutti hanno voluto avviare il processo di registrazione. Il processo ha richiesto molto tempo, ci è voluto quasi un anno per effettuare tutte le verifiche e completare la registrazione.

Quando l’agronoma è andata a trovarli poco tempo fa, hanno raccontato che nei mesi precedenti si era recata nel villaggio una compagnia straniera che voleva 80 acri di terreno per un progetto agricolo di coltivazione di mais. La comunità aveva da poco terminato il processo di registrazione e, grazie al fatto di avere in mano un titolo, hanno potuto opporsi e conservare la loro terra.

Concludo citando le parole di uno degli agricoltori, U Lone Su, che ci ha detto: «Abbiamo rifiutato la proposta e non abbiamo venduto la nostra terra. Questa terra è coltivata dalle nostre famiglie da generazioni, ci appartiene. La terra, il suolo, le nostre risorse naturali sono la cosa più importante che abbiamo».


Per maggiori informazioni sul progetto di New HUmanity International in Myanmar, clicca qui 

Guarda qui il video del convegno organizzato da Focsiv per presentare il V rapporto “I Padroni della Terra” presso il Senato della Repubblica. Dal minuto 52:00 trovate l’intervento di Francesca Benigno (seconda da sinisrtra nella foto)