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Anche le colline piangono

In Bangladesh, le minoranze religiose continuano a essere umiliate e discriminate. Padre Franco Cagnasso condivide il loro desiderio di non lasciarsi schiacciare

Frequentando le minoranze tribali del Bangladesh, una cosa mi ha sempre colpito: sentono con dolore e rabbia di non avere valore per nessuno. Tempo fa, una donna mi ha raccontato un episodio rivelatore: stava cucinando e la pentola con il riso era a terra sul fuoco. Passano due poli­ziotti e le fanno molte domande, sempre arroganti e aggressivi. Alla fine decidono di andarsene, ma prima uno di loro dà un calcio alla pentola e rovescia il riso ormai cotto. La donna chiede sgomenta il perché. Il poliziotto risponde: «Così ti ricordi che qui comandiamo noi».

Questi episodi – e altri ancora più gravi – si ripetono spesso qui in Bangladesh, un Paese che sta vivendo un momento di grande incertezza e complessità, dopo la rivolta che nel luglio dell’anno scorso ha rovesciato il regime di Sheikh Hasina, provocando incertezze, contraddizioni e disordini, buoni propo­siti e grandi aspirazioni, uniti alla persistente corru­zione, mentre la violenza cresce.

In questo contesto, la situazione delle minoranze etniche sparse sul territorio, specialmente nell’area collinare chiamata Chittagong Hill Tracts, nel Sud-est, è un capitolo a sé. In Italia si parla talvolta dei rohingya, oltre un milione, fuggiti dal Myanmar e ospitati in campi profughi “blindati” nel Sud, che sopravvivono grazie a ingenti aiuti internazionali, bruscamente ridotti quando gli Stati Uniti hanno interrotto le donazioni di Usaid. Ma questo proble­ma ha risvolti particolari, perché tocca il tema spe­cifico dei rapporti con il Myanmar, a cui il Bangladesh spera di riuscire a rinviare i rohingya, anche se le prospettive che ciò avvenga sono poche.

Ben prima che arrivassero i rohingya, però, queste colline erano abitate da gruppi etnici diversi, che dal tempo dell’indipendenza dalla Gran Bretagna (1947) e poi dal Pakistan (1971) fanno parte del Bangladesh e chiedono invano un’identità specifica che li distingua dai cittadini di cultura, lingua e reli­gioni (islam e induismo) bengalesi.

Inglobati nel Pakistan, e poi nel Bangladesh, senza tener conto delle loro differenti esigenze, vari grup­pi tribali hanno fatto ricorso alla guerriglia antigo­vernativa, che si è conclusa con un accordo di pace oltre 25 anni fa. I ribelli avrebbero dovuto deporre le armi e il gover­no avrebbe demilitarizzato la zo­na e definito un’identità che per­mettesse loro di avere rapporti di uguaglianza di diritti pur nelle diversità storiche, linguistiche, culturali e religiose. Di fatto, i ri­belli hanno consegnato le armi, ma la smilitarizzazione non s’è vista e le condizioni di discrimina­zione sono peggiorate, mentre le terre dei gruppi tribali sono state confiscate “legalmente”, senza tener conto dei bisogni specifici di chi vi abita, o illegalmente, con una violenza che non viene mai punita. Rapidamente, la percen­tuale dei bengalesi residenti è aumentata, specie nelle zone ur­bane dove ora superano il 50%; in caso di conflitto sono spalleg­giati da esercito e polizia, e han­no partita vinta.

Mentre tutto il Bangladesh si interroga su come rinnovar­si, migliorare e vivere nella giusti­zia, le minoranze tribali sono semplicemente ignorate: asso­ciazioni di gruppi etnici, riunioni di studio, pubblicazioni sosten­gono che questa è l’occasione in cui si deve definire con chiarezza una condizione di parità, nel ri­spetto delle differenze, fra grup­pi tribali minoritari e maggioran­za bengalese. Ma, che io sappia, nessuno dei partiti che si prepa­rano alle elezioni (previste nel mese di febbraio 2026) del “nuo­vo Bangladesh” ha nel suo pro­gramma le minoranze tribali: si­lenzio assoluto.

Pur avendo come “consigliere principale” Muhammad Yunus, un Premio Nobel per la pace, neppure il governo provvisorio presta attenzione a questo pro­blema. Il che significa che, per loro, non esiste. Ultimamente, qualcuno ha chiesto come mai uno stupro seguito da proteste dei tribali ha dato l’alibi a un in­tervento dell’esercito, che ha sparato sui manifestanti, ucci­dendone almeno quattro, pic­chiando e ferendone parecchi. Risposta: chi protestava era sobil­lato dall’India e dai fascisti. Un’assurdità! D’altra parte, è dif­fusa fra i bengalesi l’idea che le donne tribali siano “facili”, e quindi “disponibili”, il che non è assolutamente vero. Adesso han­no messo in giro la voce che in realtà la ragazza coinvolta in que­sto terribile episodio non sia stata violentata: i medici avrebbero dichiarato che non ci sono «segni evidenti» di violenza sessuale.

Tempo fa, un aborigeno, riferen­dosi a una serie di stupri e omici­di di ragazze tribali, si chiedeva: «Quando finirà il pianto di queste colline?». E così scriveva: «Il san­gue di mio fratello non sarà mai inutile, le lacrime di mia sorella non cadranno senza essere viste. Il grido di una madre, la sua sof­ferenza senza fine sorgeranno un giorno come un tuono sulle colli­ne serene. Anche se il buio span­de la sua ombra pesante, l’aurora verrà, il sole sorgerà. Raggi dora­ti passeranno fra le nubi, la luce della luna guarirà i cieli feriti. Le macchie di sangue scompariran­no, le vallate verdi canteranno di un giorno luminoso. Gli uccelli torneranno con canti di pace. E nel sorriso della mia mamma si esprimerà la libertà. Le fiamme brucianti si spegneranno un gior­no, campi e fattorie fioriranno. I bimbi andranno a scuola senza paura. Le loro voci di pace rie­cheggeranno serene».

Anche oggi, mentre persone che conosco e a cui voglio bene mi parlano piangendo di ingiustizie che si ripetono, provo­cando morte, disperazione e rovi­na economica di tanta povera gente, ascolto con pena le loro domande senza risposta. Non posso fare altro che trasformare in preghiera il dolore di questi po­poli, che vedono piangere anche le loro colline, e di condividere l’espressione del loro desiderio di non lasciarsi schiacciare dall’umi­liazione e dall’ingiustizia, perché qualcun altro, leggendo, li senta vicini e voglia loro bene.

«Il sangue di mio fratello non sarà mai inutile, le lacrime di mia sorella non cadranno senza essere viste. Il grido di una madre, la sua sofferenza senza fine sorgeranno un giorno come un tuono sulle colline serene. Anche se il buio spande la sua ombra pesante, l’aurora verrà, il sole sorgerà. Raggi dorati passeranno fra le nubi, la luce della luna guarirà i cieli feriti.

Le macchie di sangue scompariranno, le vallate verdi canteranno di un giorno luminoso. Gli uccelli torneranno con canti di pace. E nel sorriso della mia mamma si esprimerà la libertà. Le fiamme brucianti si spegneranno un giorno, campi e fattorie fioriranno. I bimbi andranno a scuola senza paura. Le loro voci di pace riecheggeranno serene…».                                           

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