Nicea, alle radici dell’unità

A 1700 anni dal primo Concilio ecumenico, viaggio nella Turchia che custodisce la memoria di un evento fondante per la cristianità. Ma anche nei luoghi in cui si sperimenta ogni giorno la possibilità di vivere insieme
Quando il sole comincia a declinare tingendo d’oro la superficie del lago di Iznik, gli abitanti della pittoresca e sonnolenta cittadina a cento chilometri da Istanbul, dall’altra parte del Mar di Marmara, approfittano del clima primaverile per godersi il tramonto sulla spiaggia. A pochi passi dal belvedere su cui due ragazze si mettono in posa per un selfie, le famigliole a passeggio sul lungolago incrociano un cartello con la scritta “Bazilika”. Se di primo acchito non è chiaro a che cosa si riferisca l’indicazione, basta osservare il pelo dell’acqua per notare spuntare appena, a una ventina di metri dalla riva, una fila di pietre che disegnano la pianta di una chiesa bizantina sommersa. E non una chiesa tra le tante: secondo diversi esperti queste rovine, riaffiorate solo un decennio fa, potrebbero coincidere con il sito di un evento cruciale per la storia del cristianesimo, il primo Concilio ecumenico della Chiesa.
Perché l’odierna Iznik, rinomata per l’eccellente olio d’oliva e per le ceramiche che ai tempi dell’Impero ottomano fecero conoscere il suo nome nel mondo, è l’antica Nicea, il luogo dove 1700 anni fa l’imperatore Costantino convocò i vescovi d’Oriente e d’Occidente per porre fine alle controversie teologiche e definire la comune fede. Riuniti qui dal 20 maggio al 25 luglio dell’anno 325, trecento padri conciliari respinsero l’eresia ariana, che non riconosceva la divinità di Gesù, e stesero gran parte di quel “credo niceno” che ancora oggi i cristiani di ogni confessione recitano durante la Messa.
In memoria di quelle radici, e per rilanciare il cammino dell’unità in un contesto globale quanto mai critico e conflittuale, il 26 maggio una celebrazione comune porterà sulle rive di questo lago i rappresentanti della Chiesa ortodossa e di quella cattolica. Qui tutti sperano che, nonostante i recenti problemi di salute, anche Papa Francesco possa essere presente. Tra i luoghi iconici che faranno da sfondo alla commemorazione ci sarà la basilica di Santa Sofia, che sorge proprio nel cuore della cittadina, all’intersezione del cardo e del decumano di epoca romana. L’antica chiesa ospitò il secondo Concilio di Nicea, convocato nel 787 dall’imperatrice Irene per risolvere la crisi iconoclasta. Oggi è una moschea: mentre due bimbe giocano sul tappeto decorato che ricopre quella che era la navata centrale, alcuni uomini si prostrano in preghiera in direzione della Mecca, davanti al mirhab ricavato dietro un arco laterale. Ma in basso alla parete lungo la navata sinistra, protetto da un vetro, resiste un affresco che ritrae Cristo risorto. Qualche curioso si avvicina e scatta una fotografia.
Anche se oggi a Iznik non ci sono più cristiani, i siti turistici pubblicizzano “la città dei due Concili” e la municipalità è orgogliosa di questa parte del suo ricco passato. Lo conferma con entusiasmo il vicesindaco Ahmet Kaya: «Qui si sono susseguite tante civiltà: i greci, i romani, i bizantini, e poi i selgiuchidi e gli ottomani. Ognuno di questi popoli ha contribuito alla ricchezza del nostro patrimonio culturale e oggi per noi è normale rispettare la pluralità e promuovere i valori comuni tra le diverse fedi».
L’attesa per le celebrazioni è forte: «Non vediamo l’ora di accogliere i leader della cristianità e speriamo anche che questa sarà l’occasione per fare conoscere la città nel mondo». Non da ultimo, per rilanciare il turismo: ci contano i gestori dei tanti locali che costeggiano il lungolago, dove è in costruzione una passerella che permetterà ai visitatori di osservare da vicino la basilica sommersa. Ma non solo. Presto, in questo contesto completamente musulmano sunnita, per la prima volta dopo secoli prenderà forma un segno importante: una comunità ecumenica costituita da monaci cattolici e ortodossi, che accoglierà un nuovo flusso di pellegrini e rappresenterà una presenza significativa in questo luogo dalla storia spirituale rimasta a lungo sottotraccia.
Ma se l’eredità di un passato che ha visto scrivere pagine importanti di unità tra i cristiani qui per ora si scorge solo tra le pietre dei reperti storici, per vedere in azione l’ecumenismo dal basso che in Turchia è vita quotidiana bisogna spostarsi in altre zone di questa terra plurale e dai mille volti. A cominciare da Istanbul, dove ci sono gli ortodossi greci, gli armeni, i siriaci, le Chiese riformate. E, naturalmente, i cattolici, loro stessi una comunità sfaccettata. «Abbiamo fedeli di rito sia latino sia orientale, e a fianco dei cristiani locali le nostre parrocchie sono frequentate soprattutto da persone provenienti da tutto il mondo, in particolare dall’Africa e dall’Asia», racconta monsignor Massimiliano Palinuro, vicario apostolico di Istanbul. «Conosciamo bene la sfida di camminare insieme. Sul fronte ecumenico, poi, siamo avanti di cinquant’anni rispetto al resto del mondo: ci sentiamo già quasi un’unica Chiesa».
Una realtà evidente nella parrocchia di Santa Maria Regina del Rosario di Bakırköy, dove mi accoglie Gabriel, il sagrestano siro-ortodosso. Cordiale e sorridente, mi mostra alcuni fili sospesi davanti all’altare che corrono da un lato all’altro della chiesa: reggono, spostata ora da una parte, una tenda rossa e dorata di pesante velluto. È il parroco cattolico, don Severin Hörmann, a spiegarmene la funzione: «Da decenni condividiamo gli spazi con la comunità siriaca, che in città conta ancora circa 15 mila fedeli ma non ha sufficienti luoghi di culto. Così, durante le celebrazioni, il sacerdote chiude la tenda davanti all’altare secondo la loro tradizione». Il prete 37enne, nato in Austria ma cresciuto in Turchia, conosce molto bene sfide e fatiche dei cristiani di questa terra: «Sono anche le comuni difficoltà a unirci – racconta -. E poi qui è normale per un fedele frequentare la chiesa più vicina, o quella in cui la Messa è celebrata in turco, o semplicemente dove si trova meglio». Alla celebrazione domenicale di don Severin ci sono soprattutto caldei, ma anche armeni ortodossi e siriaci: «Al di là della forma, è sorprendente constatare quanto la sostanza della fede sia la stessa», commenta.
Ci sono anche gli esempi di dialogo più “istituzionale” o i momenti di studio condivisi, come quelli organizzati dai frati minori della parrocchia di Santa Maria Draperis. E ancora, le commissioni congiunte per la traduzione dei Testi sacri. Ma le iniziative che probabilmente più incidono nel cammino verso l’unità sono quelle di pastorale: per i neofiti, i bambini e in particolare i giovani.
Iskenderun, nella provincia meridionale di Hatay, è la sede del Vicariato apostolico dell’Anatolia. Qui, dove la cattedrale è ancora in macerie dopo il devastante terremoto che nel febbraio del 2023 ha colpito il Sud della Turchia e il Nord-ovest della Siria, la comunità ha avuto la gioia di accogliere come pastore, lo scorso novembre, monsignor Antuan Ilgıt, il primo vescovo turco a servire la sua gente. Padre Antuan, gesuita di 53 anni, è legato profondamente ai ragazzi, di varie confessioni cristiane, che frequentano la parrocchia dell’Annunciazione: «Molti di loro li conosco fin da quando erano piccoli e di tanti condivido l’esperienza, il che mi permette di capirne le fatiche e i sogni», confida. Nel 2023 li ha portati alla Gmg di Lisbona, mentre quest’estate accompagnerà un gruppo a Roma in occasione del Giubileo: «Ma è importante moltiplicare le occasioni di incontro, i ritiri, le iniziative formative e di svago – aggiunge il prelato -: sono i giovani stessi a chiedermelo, perché hanno bisogno di momenti in cui potersi aprire liberamente, in un contesto dove l’essere minoranza li priva spesso della possibilità di esprimersi appieno».
Ancora una volta, le differenze di tradizioni e confessioni non sono un ostacolo. Lidya Yakici, 24enne laureata in Sociologia, pur provenendo da una famiglia ortodossa partecipa a queste iniziative: «Siamo amici, le relazioni vanno oltre i riti», afferma la ragazza, che oggi è assistente di monsignor Ilgıt ma si occupa anche delle attività parrocchiali per i bambini.
Padre Nicholas Papasoğlu, parroco della chiesa ortodossa di San Giorgio, è d’accordo con lei: «Le divisioni? Vengono dai vertici delle Chiese, non dai fedeli», spiega convinto sorseggiando il çay mentre i suoi due bimbi scorrazzano nel cortile della chiesa. «È molto semplice: come ci insegna san Paolo, la cosa più importante è l’amore. Se c’è amore, allora c’è anche l’ecumenismo».
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