Missione la nuova frontiera

Missione la nuova frontiera

I missionari italiani nel mondo sono scesi ad appena ottomila. Una spia di come non solo la geografia, ma l’identità stessa della missione stia cambiando in profondità, aprendo nuove sfide

 

È ormai evidente: il numero dei missionari italiani nel mondo non si pone su una linea retta e crescente. I dati disegnano un ciclo che si sta chiudendo. E se è vero, come dicono i sociologi, che ogni ciclo che si chiude implica una radicale trasformazione, la sfida che attende oggi non solo il mondo missionario, ma la Chiesa italiana e quella universale, non è di poco conto. Partiamo dai numeri: i missionari italiani nel mondo, fra sacerdoti, suore e laici consacrati, sono circa ottomila, fanno sapere dagli uffici della Fondazione Missio, l’organismo della Conferenza episcopale italiana nato per sostenere la dimensione missionaria della Chiesa italiana. Erano 10 mila solo due anni fa e il calo è costante sin dagli anni Novanta, quando si toccò il record di 20 mila presenze di missionari italiani all’estero. L’andamento ciclico è evidente nel momento in cui si consultano gli archivi storici: nel 1934 l’Italia aveva 4.013 missionari, nel 1943 erano 7.713, nel 1954 salivano a 10.523 fino a toccare i 16 mila negli anni Ottanta e oltre i 20 mila nel 1991. A partire da allora la discesa progressiva, fino ai numeri attuali che sono più o meno quelli degli anni Quaranta del secolo scorso.

La “crisi” non riguarda solo istituti e congregazioni missionarie. Anche l’esperienza dei fidei donum (preti italiani “prestati” a un’altra diocesi nel mondo per un periodo limitato di tempo) si è molto ridimensionata: da 1.052 nel 1999 sono scesi oggi a 407. Ma a cambiare in questi anni non sono stati solo i numeri. L’età media dei missionari e delle missionarie italiani si è innalzata con il tempo: oggi è di 63 anni. Si è inoltre invertito il rapporto fra italiani e membri di altri Paesi, all’interno di congregazioni e istituti nati in Italia soprattutto a fine Ottocento. Tanto per fare qualche esempio, oggi su tremila missionari salesiani la maggior parte è di origine asiatica; gli italiani sono 600. Le Missionarie dell’Immacolata, le “suore del Pime”, sono in maggioranza indiane e indiana è anche la superiora dell’istituto, suor Rosilla Velamparambil. I religiosi comboniani nel mondo sono 1.801 di 44 diverse nazionalità e il superiore generale è l’etiope Tesfaye Tadesse Gebresilasie, eletto lo scorso anno.

Missionari di altri Paesi che rimpiazzano quelli occidentali? Non è proprio così. Se fino a poco tempo fa la vitalità delle “giovani Chiese”, in Africa e Asia soprattutto, con le vocazioni che ne provenivano, riusciva a riempire “i vuoti” fra le file dei sacerdoti degli istituti missionari, oggi si assiste anche qui a una leggera, ma percettibile, inversione di tendenza. L’ultimo Annuario Statistico vaticano – che fotografa la situazione al 31 dicembre 2014 – segnala che il numero dei seminaristi nel mondo ha cominciato a diminuire, e non solo in Europa e nell’America del Nord. Erano 120.616 nel 2011 – anno in cui si è toccato il massimo storico – sono scesi a 116.939 nel 2014. C’è un continente dove continuano a crescere ed è l’Africa, ma anche qui se si va a vedere i dati nel dettaglio ci si accorge che le vocazioni al sacerdozio sono rallentate: oggi crescono percentualmente meno rispetto al numero di battezzati (e ai tassi di crescita demografica). In Asia, dopo il picco di 35.476 unità fatto registrare nel 2012, in due anni i seminaristi sono scesi a quota 34.469 (anche se va detto che il tasso vocazionale dell’Asia resta il più alto al mondo: 43 seminaristi ogni 100 mila battezzati). Drastico è invece il calo in America Latina, dove in soli dieci anni i seminaristi sono diminuiti del 17 per cento.

graficomissionari

Sono dati che fanno riflettere sul volto della Chiesa di domani: se questa tendenza dovesse proseguire anche in Africa e in Asia si prepara un futuro con più fedeli ma meno preti. Una sfida che non può non incidere anche sulla fisionomia della missione.

Per citare un’espressione evangelica, «mettere il vino nuovo in otri vecchi» ormai non funziona più: pensare di mantenere lo stesso modello di missione, rinfoltendo le file degli istituti missionari con nuove leve provenienti dal Sud del mondo non è una soluzione all’altezza delle sfide. Ma allora quale sarà il volto della missione di domani? Quale l’eredità della gloriosa epopea dei missionari che partivano con poche risorse e cuore indomito per annunciare il Vangelo altrove? In realtà il volto della missio ad gentes è già cambiato: è sempre più internazionale, reciproco, multidirezionale. E dovrà essere necessariamente meno clericale rispetto al passato. «Ormai da tempo si è entrati in una nuova epoca della missione, dove la distinzione tra Chiese del Nord che inviano e Chiese del Sud che accolgono, risulta inadeguata» si legge in un rapporto della Fondazione Missio dal titolo “Missione Italia: preti stranieri nelle diocesi del nostro Paese”.

La ricerca aggiunge un tassello importante allo scenario attuale: oggi ci sono più sacerdoti stranieri impegnati nelle parrocchie italiane che missionari fidei donum nel mondo; sono 1.690 i primi e 407 i secondi.

La presenza di preti stranieri in Italia è senza dubbio una ricchezza. Grazie a loro, «la missione conosce oggi un movimento pluridirezionale e la cooperazione missionaria non può prescindere dalla comunione autentica fra le Chiese», sottolinea la Fondazione Missio, affermando che «la strada dello scambio dei doni e dei carismi, ricca di prospettive nuove, appare quella più idonea per la missione di una Chiesa che, in un mondo globalizzato, accetta le sfide che da esso provengono». Il coinvolgimento delle Chiese locali, in particolare delle diocesi, nella sfida della missione, era del resto l’intuizione alla base della creazione della Pontificia Unione Missionaria (Pum) – di cui quest’anno ricorre il centenario – ad opera del beato Paolo Manna del Pime.

Fin dall’inizio del suo pontificato, Francesco ha invitato tutti, laici, sacerdoti, a «crescere in passione evangelizzatrice». Invece di perpetuare vecchi modelli, ha sottolineato l’urgenza di crearne di nuovi, a partire da quello di una “Chiesa in uscita” formata da ogni singolo credente. «In questa fase della storia non serve una semplice amministrazione della realtà esistente – ha detto lo scorso dicembre all’Assemblea plenaria della Congregazione per l’Evangelizzazione dei Popoli -. Costituiamoci in tutte le regioni della terra in uno stato permanente di missione». E ancora: «L’“Andare”, cioè il movimento, è insito nel battesimo, e i suoi confini sono quelli del mondo. Perciò continuate ad impegnarvi affinché lo spirito della missio ad gentes animi il cammino della Chiesa, ed essa sappia sempre ascoltare il grido dei poveri e dei lontani, incontrare tutti e annunciare la gioia del Vangelo».

Lo «stato permanente di missione» auspicato da Francesco implica però una trasformazione profonda e un ripensamento degli strumenti e delle forme della missione stessa: «La vostra Unione non deve essere la stessa il prossimo anno come quest’anno: deve cambiare in questa direzione, deve convertirsi con questa passione missionaria» ha detto ai rappresentanti della Pontificia unione missionaria. Una trasformazione che passa necessariamente attraverso un maggiore protagonismo dei laici.

Non a caso, al nuovo Dicastero per i laici, attivo dal primo settembre di quest’anno, il Papa ha affidato anche il compito di «animare e incoraggiare la promozione della vocazione e della missione dei laici nella Chiesa e nel mondo, come singoli, coniugati o no, e come membri di associazioni, movimenti, comunità, con particolare attenzione alla missione di animare e perfezionare le realtà temporali». Tra gli obiettivi, il Dicastero ha quello di favorire «la partecipazione dei laici all’istruzione catechetica, alla vita liturgica e sacramentale, all’azione missionaria, alle opere di misericordia e di promozione umana e sociale», sostenendo «la presenza attiva e responsabile negli organi consultivi di governo nella Chiesa universale e particolare».

Resta un dubbio: queste indicazioni favoriranno un cambiamento reale? E inoltre: se la missione è di tutti, di ogni singolo credente, non si corre il rischio che non sia di nessuno in particolare? È solo una questione di modalità diverse o la crisi è più profonda? «Noi non siamo i cristiani delle prime comunità che hanno affrontato senza strumenti e senza grandi mezzi il primo annuncio. Noi abbiamo strumenti e mezzi. Ci manca quel senso pionieristico della fede che essi avevano», ha detto di recente il responsabile di un centro missionario diocesano, don Maurizio Ghilardi di Cremona. E un missionario di lungo corso, il comboniano Renato Kizito Sesana, in una lucida analisi sulla “missione liquida” ha chiesto in modo provocatorio: «Noi missionari crediamo ancora alla specificità della nostra vocazione?». «La missione nuova è una nuova sfida – è stata la conclusione di padre Kizito -, una frontiera non fisica, che inizia nel cuore dello stesso missionario e si estende a tutto il mondo. È una visione della missione più autentica, basata sulla consapevolezza della necessità della propria conversione prima che di quella degli altri». Forse proprio a partire da questa frontiera “non fisica” e non geografica nascerà la nuova missione.