AL DI LA’ DEL MEKONG
«Dipingere è pensare»

«Dipingere è pensare»

Nella storia e nelle opere di Gerhard Richter mi ha colpito il suo impegno per un’arte che sia anzitutto risposta alla sublime chiamata del reale, oltre ogni ideologia. Un percorso che intreccia il cammino della fede e il mio essere missionario

«I miei quadri sono
più intelligenti di me» G. Richter

Grazie a Giuseppe Frangi e all’ultimo Meeting per l’amicizia fra i popoli, mi sono imbattuto nella vita e nelle opere di un artista contemporaneo, Gerhard Richter, nato Dresda nel 1932 e tutt’ora vivente (1). Quel che mi ha colpito è stato il fatto che nei momenti critici della sua carriera, l’artista non si è irrigidito ma, al contrario, ha saputo prendere le distanze dal proprio talento artistico, lasciando alla realtà l’ultima parola.

Per ricostruirne la vicenda, non si sbaglia se si parte da un evento che ha sconvolto Gerhard, emotivamente e artisticamente. Si tratta della scoparsa di Marianne, sua zia materna, affetta da una malattia psichica, prima sterilizzata e poi uccisa dai nazisti, decisi a eliminare ogni “elemento” difettoso, pur di conservare la purezza della razza ariana.

Gerhard si porterà appresso questa tragedia, come una ferita mai rimarginata che non solo lo renderà refrattario a qualsiasi ideologia, sia essa nazionalsocialista o comunista, ma costituirà la sorgente permanente della sua ispirazione artistica. Nel 1961 Gerhard lascia Berlino Est, ancora sotto l’influenza sovietica e va oltre cortina, per continuare gli studi artistici a Düsseldorf.

Solo quando scopre l’arte di Paul Jackson Pollock e Lucio Fontana, è in grado di giustificare questa sua “fuga”. «Restai affascinato dalla loro impudenza», dice di fronte alle loro opere. «Questi quadri furono il vero motivo per cui decisi di lasciare la Germania Est». Qui “impudenza” sta per “mancanza di pudore”, nel senso di saper “osare” fino al fondo della propria arte. Dalle loro opere infatti emerge quella verità sulla vita che ogni ideologia tende a soffocare o, nella migliore delle ipotesi, a deformare. È a questo punto che l’arte può intrecciare il cammino della fede e il mio essere missionario.

Avverso all’ideologia (in questo caso eugenetica) che gli aveva ucciso la zia, Richter percepisce la vita come lotta contro tutto ciò che diminuisce il reale. Sente per questo la necessità di un azzeramento rispetto a ogni pervasiva nube ideologica, diffidando persino del proprio talento, quando rischia di lasciarsi frettolosamente arruolare dal sistema. Intende questo azzeramento come una sorta di catarsi interiore da cui sprigiona un «andare oltre ciò che è programmato e ciò che è garantito dalla propria bravura». Predilige la sorpresa, l’imprevisto portato dalla realtà piuttosto che il conformismo portato dall’ideologia del pensiero unico e dispotico. E si impegna in un’arte che sia anzitutto risposta alla sublime chiamata del reale.

In un periodo di crisi, il reale gli si ripresenta attraverso delle vecchie foto di famiglia. In una di esse rivede la zia Marianne che Gerhard prova a far rivivere sulla tela, caricando la figura di una sfumatura che sembra restituirgli la vita perduta. Dipingere diventa per lui «una vera necessità … un mezzo per rendere l’inspiegabile [la morte della zia] più spiegabile». Sostiene che l’artista non dovrebbe avere altro tema che la realtà grazie alla quale l’esito finale è sempre qualcosa di imprevisto, oltre il calcolo del soggetto. Dipingere è per lui una chiamata a sgravarsi di ogni soggettività e un modo per pensare «in antitesi con l’essere ideologici».

Richter si riconosce in quello che Paul Cézanne sosteneva e cioè che il problema dell’artista non è creare, ma immettersi in un processo creaturale… O Henri Matisse che attibuiva la sua arte non all’abilità della sua mano, ma all’essere preso per mano… «ho avvertito di fronte alla Chapelle di Vence che ero stato preso per mano, c’era qualcuno che mi guidava a fare quelle cose». E ancora, intendeva «l’opera d’arte non come l’espressione di un sé, ma come una rivelazione di cui l’artista è testimone», verso un disvelamento più profondo del reale, anti-ideologico e anti-idolatrico, che scaturisce solo nell’atto del dipingere. «Dipingere è pensare» – sostiene Richter. Sulla tela accade sempre qualcosa di più, per questo, «i miei quadri sono più intelligenti di me».

Nel 1972 a Venezia Richter scopre l’Annunciazione del Tiziano conservata presso la Scuola Grande di San Rocco. L’incontro con quell’opera gli insinua il tema della donna improvvisamente chiamata da qualcuno, destinataria di un’annunciazione. Tale tema, l’annunciazione, fa nascere in lui la consapevolezza che «creare un dipinto consiste in una lunga serie di “si” e di “no” che termina però con un “si”…». Un sì alla realtà. Un sì all’angelo!

«Dispero della mia incapacità – racconta Richter – ma la speranza viene alimentata ogni volta che appare un frammento, l’accenno iniziale di qualcosa che mi ricorda quello che ho desiderato»… «Può essere che Dio è morto, ma non certo il desiderio»… «Di cosa ho desiderio? Di qualità perdute, per un mondo migliore, per il contrario della miseria e della desolazione. Potrei chiamarla anche redenzione. Oppure speranza, la speranza che dopo tutto potrei cambiare qualcosa con la pittura».

 

  1.  Si può rivedere l’incontro qui