Il risveglio della Gen Z
Il 2025 è stato scandito dalle proteste dei ragazzi tra i 15 e i 25 anni che, da un capo all’altro del mondo, sono scesi in piazza contro la corruzione e il malgoverno. In contesti molto diversi, ma con parole chiave e simboli comuni
All’inizio è stata una bandiera, l’immagine di un teschio sorridente con indosso un cappello di paglia, sventolata dai giovani manifestanti durante le proteste anti-corruzione scoppiate lo scorso agosto in Indonesia. I ragazzi erano scesi in piazza a Jakarta contro l’aumento dei benefit economici destinati ai parlamentari, deciso dal governo del presidente Prabowo Subianto in un contesto di austerità e di crescente inflazione. Il vessillo nero agitato per le strade arrivava direttamente dalle pagine della popolare serie manga e anime giapponese “One Piece”, il cui protagonista è un vivace pirata adolescente che insieme al suo equipaggio sfida il corrotto Governo Mondiale.
Sta di fatto che, pochi giorni dopo, il teschio col cappello di paglia campeggiava sui cancelli del palazzo del governo a Kathmandu, dove lo avevano appeso le folle di giovanissimi nepalesi a loro volta mobilitatisi in nome della lotta alla corruzione e al nepotismo. Lì la miccia era stata il divieto su scala nazionale di numerose piattaforme di social media, ma a far divampare la frustrazione collettiva era stata l’ostentazione della ricchezza da parte dei funzionari governativi e delle loro famiglie, unita alle accuse di cattiva gestione dei fondi pubblici. Il 9 settembre, mentre il Paese andava letteralmente a fuoco, con edifici governativi e politici dati alle fiamme, il primo ministro Sharma Oli si dimetteva e tre giorni dopo, trovato un accordo con i militari, i manifestanti individuavano una premier di transizione (l’ex giudice della Corte suprema Sushila Karki), in vista di nuove elezioni. Dettaglio significativo: il profilo di Karki, prima donna a ricoprire il ruolo di capo del governo in Nepal, era stato scelto dai ragazzi on line.
D’altra parte, proprio come in Indonesia, la mobilitazione giovanile è corsa sul filo dei social, da TikTok a Instagram, da Telegram a Discord. E, soprattutto, anche in questo caso i protagonisti principali delle proteste sono stati i ragazzi tra i 15 e i 25 anni, la cosiddetta Generazione Z. Una fascia di popolazione spesso considerata passiva e rinchiusa in un “universo virtuale” e che invece, negli ultimi mesi, ha sorpreso il mondo per la sua irruzione sulla scena collettiva attraverso una serie di proteste da un capo all’altro del globo.
Il “contagio” ha oltrepassato i continenti, toccando contesti molto diversi ma con alcune parole d’ordine comuni: trasparenza, buon governo, giustizia sociale. Il vessillo di “One Piece” si è visto così sventolare dalle piazze di Rabat, dove il movimento GenZ 212 (il prefisso telefonico del Marocco) ha messo nel mirino le spese per gli stadi in vista dei mondiali di calcio del 2030 in un Paese in cui la sanità è al collasso, a quelle di Lima, Belgrado e Nairobi, passando per le Filippine e il Madagascar. Qui la rivoluzione, scaturita dall’esasperazione per i continui blackout elettrici, è stata poi scippata dai militari, determinati a liberarsi del presidente Andry Rajoelina. Come è stato evidente anche in passato, a cominciare dalle Primavere arabe, non sempre infatti le proteste giovanili riescono a creare il cambiamento che vorrebbero. Molte di quelle scoppiate negli ultimi mesi, addirittura, sono state represse nel sangue, come in Marocco o in Kenya. Ma il punto oggi è cercare di capire da dove viene questa energia che, come mai prima, sta travalicando le distanze geografiche e anche culturali in nome di un disagio comune. Il fattore scatenante della rabbia è spesso la percezione di vivere situazioni di ingiustizia senza poter avere una voce in capitolo: così la rivoluzione degli studenti del Bangladesh, che nell’agosto dell’anno scorso portò alla clamorosa fuga della premier Sheikh Hasina, era partita dall’opposizione a un sistema di quote lavorative percepito come iniquo, in un clima di autoritarismo che da tempo soffocava ogni forma di dissenso.
In Mongolia, Paese spesso assente dal panorama mediatico occidentale, a maggio il primo ministro Oyun-Erdene Luvsannamsrai è stato sfiduciato dal Parlamento in seguito alle rivolte giovanili contro la corruzione endemica. Un post sui social in cui il figlio di Oyun-Erdene sbandierava alcuni regali di lusso fatti alla fidanzata ha provocato la reazione indignata di tanti suoi coetanei esclusi regolarmente dall’accesso al benessere e a una vita dignitosa. La percezione di essere stati ingannati dagli adulti e l’implosione del contratto sociale accomunano in tutto il mondo ragazzi poco più che adolescenti senza leader né partiti, armati soltanto di smartphone, di slogan presi dalla cultura popolare e di una rabbia contro un futuro negato. Così, le tensioni legate a ogni singolo contesto locale vanno di pari passo con inquietudini presenti su scala globale, come quelle dovute ai cambiamenti climatici, ai conflitti scatenati dal fallimento del multilateralismo, all’impatto delle nuove tecnologie sul futuro del lavoro.
«Partecipare alle manifestazioni non è solo un atto di protesta, ma una dichiarazione di coscienza», racconta Derry, studente 25enne indonesiano, in una testimonianza raccolta da Amnesty International. «I governi stanno scivolando verso tendenze repressive, mascherando politiche di sfruttamento sotto slogan ambigui. Queste politiche danneggiano sia l’ambiente sia le comunità emarginate, in particolare i popoli indigeni, tradendo al contempo i principi fondamentali dei diritti umani e del buon governo».
Parole che riecheggiano quelle della malgascia Rova, 23 anni: «Per la Generazione Z protestare non è una scelta, è una necessità morale. Stiamo crescendo in un mondo in cui l’ingiustizia è diventata un fatto quotidiano». Istanze che rimbalzano da un continente all’altro senza ostacoli, con una rapidità mai vista prima. A mobilitarsi, non a caso, è oggi la prima generazione di nativi digitali, cresciuta in un contesto interconnesso, abituata a coordinarsi a distanza, senza luoghi di ritrovo fisici. Ci si incontra sulle piattaforme social – quella preferita è Discord, un sistema di messaggistica istantanea inizialmente utilizzato dagli appassionati di videogiochi ma che oggi conta oltre 600 milioni di utenti -, lì ci si confronta e si dibatte, si condividono informazioni e simboli virali. E poi, quando è il momento, si scende in strada. Da Antananarivo a Buenos Aires.
Come ha sottolineato il sociologo marocchino Mehdi Alioua, docente all’Università Sciences Po Rabat-Uir, i social media non sono all’origine della ribellione ma riflettono e amplificano una disillusione maturata soprattutto da ragazzi scolarizzati e spesso con una buona formazione: «Fin da piccoli, hanno imparato che l’impegno e l’istruzione potevano portare all’avanzamento sociale. La scuola diffonde una promessa, quella della meritocrazia, ma in realtà questa promessa non viene mantenuta».
La cosiddetta “Gen Z” è cresciuta nell’onda lunga della crisi finanziaria del 2008 e ha dovuto affrontare un mondo del lavoro in evoluzione, salari bassi e inflazione crescente. Ha vissuto la pandemia di Covid-19, che ha evidenziato profonde diseguaglianze dentro e fuori i confini degli Stati, e sperimenta la preoccupazione profonda per una crisi climatica di cui pagherà le conseguenze, mentre i responsabili di oggi non agiscono con la necessaria determinazione per evitare il collasso. Il tutto in un quadro generale di crescente sfiducia verso i meccanismi tradizionali di partecipazione, visto che le democrazie appaiono spesso incapaci di tradurre in pratica le aspettative delle nuove generazioni.
Eppure, questi ragazzi rifiutano di sentirsi irrilevanti, chiedono di essere ascoltati e di contribuire a determinare il proprio futuro. Se le istituzioni tradizionali e i partiti politici perdono di credibilità, resta la piazza. La sfida, però, è il passo successivo. Ossia, come ha scritto il demografo Alessandro Rosina, «reinventare le forme di impegno, sperimentando nuove modalità di partecipazione – ibride, digitali, transnazionali – che cercano di coniugare etica, efficacia e senso di appartenenza». L’azione collettiva giovanile è quindi anche «una reazione più profonda al rischio di un passaggio storico dal mondo delle grandi democrazie a quello delle grandi potenze, in cui non prevalgono più valori condivisi e regole multilaterali, ma logiche di forza, sovranità, controllo delle tecnologie e capacità d’influenza». O, nelle parole della giovane Rova, «ciò che vedete nelle strade non sono fomentatori di disordini: sono coscienze che si risvegliano, ragazzi che si rifiutano di lasciare che il loro futuro si consumi nell’indifferenza».
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