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Icona decorativa, Icona decorativa10 Dicembre 2025 Anna Pozzi

Pace per Cabo Delgado

Sono più di 1 milione 300 mila le persone costrette a fuggire dagli attacchi jihadisti nel nord del Mozambico. Una situazione gravissima e dimenticata. Dalla diocesi di Braga, Portogallo, a Pemba, la toccante testimonianza dei missionari

«Vorrei parlare di Laura. Il suo nome racchiude migliaia di altri nomi e storie simili. La sua è una vicenda molto dura, ma rappresenta la realtà silenziosa di tanti bambini a Cabo Delgado». Fátima Castro è una missionaria laica portoghese e fa parte della prima équipe composta da un’altra laica, Andreia Araújo, e da un sacerdote, Manuel Faria, che dalla diocesi di Braga in Portogallo si sono recati insieme, nel 2017, in quella di Pemba, in Mozambico. Qui per circa quattro anni si sono fatti carico della parrocchia di Santa Cecília de Ocua nella regione di Cabo Delgado, che proprio da quell’anno ha cominciato a essere funestata dai violenti e continui attacchi dei terroristi islamici di Al Shabaab, che hanno provocato oltre seimila morti e 1,3 milioni di sfollati che vivono in situazioni di grande precarietà e vulnerabilità. Laura era una di loro…

«Arrivò alla missione che pesava meno di tre chilogrammi, nonostante avesse quasi dieci mesi – continua Fátima -. Era orfana di madre e il padre lottava contro l’alcolismo. I suoi fratelli di soli sette e otto anni hanno cercato di prendersi cura di lei. Nonostante tutti gli sforzi finì per morire di fame. Ricordo una delle visite nella loro casa: mi resi conto che il giorno prima erano riusciti a mangiare solo un topo. Quel momento è impresso nella mia memoria: l’impotenza, il dolore e la consapevolezza che la fame e la povertà continuano a rubare vite innocenti. È grazie a loro, e a tanti altri come loro, che continuiamo a credere che la presenza della missione abbia un senso: anche quando tutto sembra così fragile, è lì che il Vangelo diventa più reale».

È in questo contesto che l’équipe missionaria di Braga si è trovata a operare accanto a una popolazione martoriata e calpestata e, nonostante tutto, capace di resistere e mantenere viva la fede. La parrocchia di Santa Cecília de Ocua si trova infatti nel distretto di Chiure, sulle rive del fiume Lúrio nel Nord del Mozambico, dove, nel disinteresse totale dei media internazionali, non cessano gli attacchi e le violenze dei gruppi jihadisti che, nel 2022, hanno assalito anche la missione di Chipene, uccidendo suor Maria De Coppi, missionaria comboniana, mentre sono sopravvissute miracolosamente le consorelle e due missionari fidei donum della diocesi di Concordia-Pordenone.

«La povertà e l’isolamento di queste zone sono impressionanti – ammette padre Manuel Faria -. Non ci sono né elettricità né acqua corrente. Le persone camminano a piedi nudi, con le mani callose per il duro lavoro agricolo. I giovani nutrono sogni infiniti e gli adulti lottano fino allo sfinimento per sopravvivere. Ma quello che colpisce di più di queste comunità sono le loro caratteristiche uniche di resilienza. E c’è una grande dimensione di speranza nell’abbondanza di bambini, che riempiono i villaggi di vita e gioia».
Alla parrocchia Santa Cecília de Ocua fanno capo ben 99 cappelle su un territorio molto vasto, tutte con i loro animatori, catechisti, operatori sociali e con le commissioni femminile, dell’ecumenismo e del dialogo interreligioso, in un mondo a maggioranza musulmano. «Con loro, con questi laici – continua padre Manuel -, abbiamo cercato di portare avanti lo stile di presenza delle prime comunità cristiane, celebrando l’Eucaristia, promuovendo la formazione dei catechisti, la preparazione ai sacramenti, gli incontri per giovani e donne e le visite alle comunità più lontane. Insieme abbiamo condiviso la missione pastorale di incarnare il Vangelo, che è un compito delicato, sempre con la testimonianza, a volte con le parole, nella Via Crucis di questo popolo sofferente, ma resiliente».

Padre Manuel, Fátima e Andreia si sono fatti carico dei diversi ministeri ecclesiali e della vita pastorale delle comunità, continuando il modello missionario della diocesi di Pemba, dove i laici si occupano di quasi tutti gli aspetti della vita comunitaria e parrocchiale. Allo stesso tempo hanno cercato di coniugare l’azione di evangelizzazione e l’animazione missionaria a progetti di cooperazione allo sviluppo, in uno spirito di comunione e sinodalità e in una vera corresponsabilità.

«Nella missione di Ocua – interviene Fátima – abbiamo sempre cercato di integrare le dimensioni pastorale, sociale e umanitaria, perché crediamo che evangelizzare significhi anche prendersi cura della vita concreta delle persone. In particolare, abbiamo portato avanti un programma di supporto per gli sfollati e le famiglie reinsediate, distribuendo cibo, vestiti e beni di prima necessità e fornendo assistenza post ricostruzione nelle comunità ospitanti. Tutto questo è possibile solo grazie alla collaborazione di tante persone. La missione è soprattutto un segno di speranza condivisa, dove la fede si traduce in gesti concreti di vicinanza e ricostruzione».

Fátima ricorda famiglie intere che fuggivano senza niente e arrivavano spesso solo con i vestiti che indossavano, stanche, spaventate e profondamente segnate da ciò che avevano visto e vissuto. «La prima risposta – dice – è sempre stata quella di accogliere queste persone, dando loro acqua, cibo, un posto dove riposare e, soprattutto, ascoltarle». Oltre agli aiuti di emergenza, veniva poi avviata una fase di “accompagnamento” nei campi di reinsediamento o nelle comunità ospitanti, che spesso erano esse stesse molto povere. «Ricordo un uomo che aveva una casa poco più grande di una stanza dove ospitava decine di persone offrendo il pochissimo che aveva – rievoca Fátima -. Anche noi abbiamo cercato di condividere tutto. In quei momenti, la missione diventava una vera casa per tutti: un luogo di condivisione e solidarietà». Un luogo in cui trovavano spazio anche delle sofferenze più profonde e interiori: il dolore, la paura, la perdita…

«Confrontarsi con la fragilità della vita, il silenzio di chi ha perso tutto e mantiene ancora la fede mette a dura prova – riflette Fátima -. Cabo Delgado mi ha trasformata. Mi ha fatto capire che la missione è essere presenti, ascoltare e condividere, anche quando non ci sono risposte facili. È un luogo che ci insegna molto sulla forza delle persone, sulla profondità della fede e sull’urgenza della speranza».

Anche nelle scorse settimane la provincia di Cabo Delgado è stata nuovamente colpita da attacchi devastanti con ulteriore carico di morte, distruzione e persone sfollate. Le comunità vivono in uno stato di insicurezza permanente, mentre i miliziani, che nel 2019 si sono affiliati allo Stato Islamico, continuano a reclutare giovani disoccupati e disillusi nelle loro file, promettendo prospettive di soldi e gloria che ovviamente non si realizzano e costringendoli a commettere le peggiori atrocità contro la loro stessa gente.

«Abbiamo vissuto situazioni di grande tensione e paura, soprattutto quando le nostre comunità sono state attaccate e abbiamo dovuto cercare rifugio – racconta padre Manuel -. Non è facile continuare la vita di missione quando il rumore delle bombe che cadono o le notizie di nuove incursioni diventano parte della vita quotidiana. Ciò nonostante, la presenza del team missionario finisce per essere un segno di speranza. Anche in mezzo all’instabilità e al rischio, abbiamo sentito l’importanza di rimanere, accompagnare, ascoltare e condividere la vita delle persone. La fede e la solidarietà sono state ciò che ci ha mantenuti forti».

«In questo momento – aggiunge – a causa dell’instabilità e dell’insicurezza della zona in cui si trova la parrocchia, non abbiamo potuto inviare altri missionari da Braga. Tuttavia, continuiamo a seguire a distanza padre Piter Sebastião, che ha assunto il ruolo di amministratore parrocchiale, finché non sarà possibile riprendere in sicurezza la presenza missionaria. Nonostante la distanza fisica, conserviamo i contatti e il supporto, cercando di mantenere viva la missione, nelle comunità, nelle persone e nei piccoli gesti che fanno la differenza ogni giorno».

La preoccupazione però è costante, anche perché continuano ad arrivare notizie di grande sofferenza. Il vescovo di Pemba, dom António Juliasse, in particolare, cerca faticosamente e instancabilmente di dare visibilità allo strazio della popolazione, che tuttavia trova poco riscontro nei media. «Pur­trop­po – dicono padre Manuel e Fátima – i nomi e i volti della guerra rimangono infiniti. Continuiamo a vedere attacchi quasi ogni giorno e i traumi sono profondi, sia fisici che emotivi. E ogni giorno si registrano feriti gravi, perdita di persone care, sfollamenti forzati e distruzione di case, cappelle e intere comunità. Ogni nuova notizia riapre ferite e riporta alla mente il peso del dolore, ma ci ricorda anche l’importanza di non rinunciare ad accompagnare, pregare e dare voce a chi soffre in silenzio. Anche da lontano, restiamo vicini a tutti loro, con il cuore, con le preghiere e con la speranza che la pace possa un giorno rifiorire a Cabo Delgado».

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