Insediamenti israeliani: il giorno dell’«annessione»?
Sei domande e sei risposte per capire che cosa sono, dove sono e quanto pesano davvero oggi gli insediamenti israeliani in Cisgiordania. E perché – intorno al 1° luglio 2020 – si sta giocando una partita decisiva per il futuro del Medio Oriente
CHE COSA SONO GLI INSEDIAMENTI ISRAELIANI IN CISGIORDANIA? In questi giorni si torna a parlare molto degli insediamenti israeliani in Cisgiordania, perché in Israele si discute ormai apertamente di una possibile annessione di questi territori, che potrebbe arrivare con il 1° luglio. Di che aree si tratta? E quante persone vi abitano? Gli insediamenti (detti anche colonie) sono quelle cittadine e villaggi ebraici che negli ultimi cinquant’anni Israele ha autorizzato a costruire nella West Bank, la «riva occidentale» del fiume Giordano (Cisgiordania, appunto), regione strappata alla Giordania alla fine della Guerra dei Sei giorni, nel giugno 1967. La West Bank è la regione dove vive la grande maggioranza della popolazione palestinese e dunque nell’ipotesi «due Stati per due popoli» – al centro finora di tutte le ipotesi di accordi di pace tra israeliani e palestinesi – dovrebbe divenire il cuore dello Stato della Palestina. Solo che in questi cinquant’anni – sia negli anni del processo di pace sia negli anni del gelo tra le leadership israeliane e palestinese – gli insediamenti israeliani sono continuati a crescere. Con il risultato che oggi circa 500 mila coloni israeliani vivono negli insediamenti, costituendo di fatto intorno al 15% della popolazione totale a fronte di un 85% di palestinesi. Si tratta di due comunità che vivono rigidamente separate: ogni insediamento è infatti un’enclave recintata e protetta dall’esercito israeliano e spesso collegata alle città che si trovano al di là della Linea Verde (il confine internazionalmente riconosciuto di Israele, che è quello precedente alla guerra del 1967) dalle by-pass road, speciali strade che solo le auto con targa israeliana possono percorrere. GLI INSEDIAMENTI SONO TUTTI UGUALI? No, esistono delle distinzioni importanti. Intanto dal punto di vista della legge israeliana oggi vi sono tre situazioni diverse: la prima sono i quartieri ebraici di Gerusalemme est, dove l’annessione unilaterale da parte di Israele è già avvenuta nel 1967 e poi rinforzata nel 1980 con la legge ha proclamato Gerusalemme «capitale unica e indivisibile» di Israele. Questi quartieri per Israele non sono insediamenti, ma parte del proprio territorio. Con una grossa contraddizione, però: ai circa 300 mila palestinesi che abitano in quelle stesse zone non è riconosciuta la cittadinanza israeliana, ma solo uno status di «residenti permanenti». Diverso invece il caso del resto della West Bank, che finora Israele ha controllato ma senza mai annettere ufficialmente. Il governo israeliano, dunque, riconosce l’esistenza in Cisgiordania di 132 insediamenti abitati da ebrei israeliani a cui applica la propria legge e a cui offre servizi pubblici, senza però (almeno finora) ufficialmente dichiarare la propria sovranità su questi luoghi. Un regime ambiguo, pensato inizialmente come provvisorio in vista di una definizione dei confini, che protraendosi però per cinquant’anni e sostenuto da un’occupazione militare ha creato situazioni difficilmente reversibili: alcuni di quelli che chiamiamo insediamenti oggi sono grandi città da decine di migliaia di abitanti. C’è infine anche una terza tipologia da tener presente, i cosiddetti outpost cioè gli insediamenti che neppure per la legge israeliana dovrebbero esserci e invece ci sono: in teoria infatti dovrebbe essere il governo ad autorizzare la costruzione di un insediamento; invece la storia degli insediamenti è fatta di continue regolarizzazioni decretate dai governi israeliani su zone requisite dall’esercito per «ragioni di sicurezza» e poi trasformate in villaggi ebraici da militanti della destra nazionalista ebraica, che rivendica la sovranità di Israele su tutta «la Giudea e la Samaria» (come viene chiamata la West Bank dagli ebrei israeliani). Non ci sono numeri ufficiali sugli outpost, che possono essere gruppi di roulotte così come cittadine vere e proprie; ma secondo il censimento dell’organizzazione pacifista ebraica Peace Now se ne conterebbero ben 124. CHE COSA SONO I «BLOCCHI» DI INSEDIAMENTI? Le mappe geografiche che mostrano la disposizione degli insediamenti nella West Bank sono eloquenti: non c’è angolo della Cisgiordania in cui non siano presenti comunità di coloni. Vi sono alcuni luoghi dove è evidente il richiamo delle radici bibliche: per esempio Hebron, la città dove la situazione è più incandescente perché l’insediamento israeliano dove vivono alcune migliaia di ebrei è nel cuore della stessa città abitata da più di 200 mila palestinesi; ed entrambe le comunità gravitano intorno alla Tomba di Abramo, divisa in due da una parete antiproiettile. Non tutti gli insediamenti hanno però motivazioni religiose così forti: ce ne sono tanti altri nati con un intento molto più prosaico, e cioè interrompere la continuità territoriale tra i villaggi arabi in modo da rendere impossibile la nascita di uno Stato palestinese.
Nonostante questo, però, è sbagliato guardare a 500 mila coloni israeliani come a una massa indistinta di fanatici mossi solo dal desiderio di strappare terre ai palestinesi. Chi prova a guardare dentro a questo mondo si accorge che la realtà è più complessa. E la dimostrazione più evidente è la distribuzione reale della popolazione all’interno degli insediamenti, che è molto diversa rispetto ai puntini che appaiono sulle mappe. La verità è che l’80% dei coloni vive in aree abbastanza circoscritte, denominate «blocchi»: sono sostanzialmente sei e corrispondono a non più del 5% della superficie complessiva della West Bank. Sono di fatto zone residenziali che gravitano su Gerusalemme da cui ogni giorno vanno e vengono migliaia di pendolari.
Comesi vede nell’immagine qui sotto alcuni di questi blocchi di colonie distano appena qualche chilometro dalla Linea Verde. Il caso classico è quello di Modi’in Illit (dove Illit in ebraico significa superiore): è un insediamento costruito dagli haredim (i religiosi ebrei ultra-ortodossi) accanto a Modi’in, una città che si trova nel territorio internazionalmente riconosciuto di Israele. Oggi nella sola area di Modi’in Illit abitano 85 mila coloni. È evidente che in questo caso in un qualsiasi accordo di pace con i palestinesi sulla base del principio dei due Stati nessuno penserebbe mai a uno sgombero di questa città. Sarebbe più facile per tutti un meccanismo di compensazione territoriale: la Palestina rinuncia all’area di Modi’in Illit in cambio di un’altra area equivalente non edificata in territorio oggi israeliano sulla quale poter costruire una propria città. Un po’ più problematico il caso di Ma’ale Adumim, altra grande città oggi di 50 mila abitanti: basta infatti guardare la mappa per capire che è stata costruita con un’intenzione ben precisa, cioè quella di interrompere la continuità territoriale tra la grande città palestinese di Gerico e Gerusalemme. Anche qui, però, con precise garanzie una soluzione senza trasferimenti di persone non è impossibile da trovare.
Diverso invece il caso dei circa 80 mila coloni (meno del 20%) che vivono in decine di insediamenti isolati. E tra queste colonie ci sono in particolare quelle della Valle del Giordano, la parte più a est della Cisgiordania. Sono villaggi abitati da poche migliaia di ebrei, dediti in particolare ad attività agricole. Su questi insediamenti lo scontro sulla sovranità a ogni tavolo negoziale è sempre stato particolarmente duro: Israele non vuole rinunciarvi perché vuole mantenere il controllo del confine con la Giordania; dall’altra parte, però, la Palestina non accetta l’idea diventare uno Stato di cui Israele detenga le chiavi, controllando tutti i suoi confini. È evidente che in questo caso l’unica possibile via d’uscita è una soluzione che sia internazionalmente garantita.
CHE COSA DICE IL PIANO DI TRUMP SUGLI INSEDIAMENTI?
Come si ricorderà nel gennaio scorso – dopo mesi di rinvii – il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha presentato il suo piano di pace per il Medio Oriente. Una proposta che nelle intenzioni dichiarate vorrebbe porre fine al conflitto tra israeliani e palestinesi, ma che si fonda su un meccanismo che prevede – in sostanza – un via libera a buona parte delle rivendicazioni territoriali israeliane e uno Stato palestinese di conseguenza molto frammentato, tenuto insieme da ponti e tunnel e con una soluzione molto ambigua sul legame con Gerusalemme, ma con la promessa di abbondanti finanziamenti per le sue attività economiche.

Articoli correlati
Bartolomeo I: «La piena comunione, come nel primo millennio»
Taccuini tra cielo e terra
