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La Siria ricomincia dai bambini

Nelle aree tornate sotto il controllo del governo, i combattimenti sono cessati. E così francescani, gesuiti e focolarini hanno attivato alcuni progetti per aiutare i bambini a superare i traumi di guerra
  «Ho chiesto a un bambino di dieci anni cos’è la guerra. Mi ha risposto elencando una serie di verbi: bombardare, combattere, essere insicuri. Poi gli ho chiesto cos’è la pace e ha risposto: “Non lo so”». A riferire l’episodio è un gesuita siriano di Aleppo che preferisce non essere citato, ma che confida: «Quello che mi fa più paura è la sensazione, dopo sette anni, di esserci abituati a vivere in mezzo al conflitto. Non sappiamo più cos’è la vita normale. Non riusciamo a immaginare una strada senza check point: quando li hanno tolti da una via che percorro ogni giorno ne ho quasi avvertito la mancanza. I trasporti, l’acqua, l’elettricità: ci adattiamo a fronteggiare una nuova emergenza, adeguandoci alla situazione. Anche le violenze sono diventate “normali”: molte famiglie sono rimaste senza uomini, e a soffrirne sono soprattutto donne e bambini». A fare il punto sugli abusi che colpiscono i più vulnerabili, a sette anni dall’inizio della guerra in Siria, è stata Caritas Italiana, nel dossier: Sulla loro pelle. Costretti a tutto per sopravvivere. Il rapporto ha individuato 13 situazioni di violenza alle quali sono esposti soprattutto i minori. Le principali città siriane, fra cui Aleppo, Damasco e Homs, sono tornate in gran parte sotto il controllo dell’esercito. Ma la guerra, anche dove sembra essersi affievolita, ha lasciato i suoi “mostri”. Fra questi il lavoro minorile, l’arruolamento dei bambini nelle file dei combattenti, la separazione delle famiglie e la perdita di case e beni, i matrimoni precoci, lo sfruttamento economico, le molestie e violenze sessuali. Ezio Aceti, psicologo dell’età evolutiva e autore di una quarantina di libri sull’infanzia e l’adolescenza, è stato in Siria su invito del movimento dei Focolari al quale appartiene, dei francescani e dei gesuiti. A Damasco e Homs ha tenuto corsi di formazione a insegnanti e operatori sociali sullo sviluppo dei bambini in situazioni di pericolo e paura. «Una delle emergenze è la necessità di gestire le ferite psicologiche che la guerra ha inflitto a numerose famiglie, e in particolar modo ai ragazzi – racconta Aceti -. I più grandi sono traumatizzati da ciò che hanno visto e vissuto, alcuni di loro hanno perso il padre o un fratello nei combattimenti. I più piccoli non hanno gli strumenti per elaborare e comprendere l’assurdità della guerra». A Homs, Aceti è stato ospite nel convento dove nel 2014 fu assassinato Frans van der Lugt, psicoterapeuta e gesuita olandese che viveva da oltre 35 anni in Siria, e che a Homs operava per la cura e l’accoglienza dei disabili mentali. Una figura ancora molto amata e di cui è venerata la memoria. Durante l’assedio di Homs da parte degli islamisti, van Lugt si era rifiutato di abbandonare la città, rimanendo l’unico religioso e l’unico straniero. Dopo il suo assassinio è stata la gente del quartiere a tenere aperto il convento, fino all’arrivo di altri gesuiti. Oggi ad abitare quel luogo sono altri quattro suoi confratelli, che stanno continuando a lavorare sul fronte delle ferite psicologiche lasciate dalla guerra, in particolare con programmi rivolti ai bambini. «Nella vecchia Homs, quasi totalmente distrutta, c’è un silenzio tombale – racconta Ezio Aceti -. Poi c’è l’altra parte, quella dove si continua a vivere. I bisogni sono enormi, ma c’è anche sete di imparare e ricominciare, e tanto desiderio da parte degli insegnanti di confrontarsi per far fronte ai bisogni educativi. Ci vorrà tempo per superare i traumi. Ma c’è anche la capacità di andare oltre la fatica. I bambini, di solito, sono i primi ad averla». Un quarto della popolazione siriana è fuggita in altri Paesi durante il conflitto, di conseguenza anche gli insegnanti sono diminuiti. Nelle scuole pubbliche ci sono anche 80 bambini per classe, e diventa perciò difficile fornire un livello di istruzione adeguato. I gesuiti sono presenti anche ad Aleppo, dove hanno attivato un programma scolastico alternativo per bambini sfollati che non hanno la possibilità di andare a scuola, mentre nel pomeriggio c’è il doposcuola per gli alunni delle elementari e delle medie, che integra l’istruzione ricevuta in classe. «Ciò di cui abbiamo bisogno in questo momento è di confronto e formazione – dice da Aleppo Robert Chelhod, consacrato focolarino -. Quando è iniziata la guerra i bisogni più urgenti erano legati all’emergenza, alla mancanza di cibo, acqua, elettricità. Ora Aleppo è relativamente tranquilla, anche se a 15 chilometri c’è ancora un’area non controllata dall’esercito e qualche bomba o missile ogni tanto arriva fin qui. La corrente è tornata, anche se ce l’abbiamo per due ore e poi manca per altre due. A giorni alterni arriva anche l’acqua e le famiglie si sono abituate a farne scorta: tutti hanno in casa dei serbatoi. Ora abbiamo bisogno di guardare al futuro, di creare lavoro per i giovani e le famiglie, di rialzarci, di curare le ferite profonde in ciascuno di noi e nella società». Chelhod ha conosciuto la guerra da bambino in Libano, dove la sua famiglia si era trasferita per il lavoro del padre, e oggi aiuta i bambini a superare i traumi del conflitto siriano. «Sono nato ad Aleppo – racconta -. Nel ’75 ci trasferimmo in Libano e poco dopo scoppiò la guerra. Avevo dodici anni e ne ho vissuti dieci di quel conflitto». Proprio a Beirut Robert ha conosciuto il movimento dei Focolari: «Due amici mi invitarono a un incontro dove si parlava di Dio come “Amore”. Mi sono detto: “O questa gente è pazza – perché dire che Dio è amore durante una guerra è una cosa pazzesca – o c’è qualcosa di nuovo”». Per due anni, dall’87 all’88, Chelhod ha vissuto in Italia, presso la cittadella del movimento fondato da Chiara Lubich a Loppiano, per la sua formazione. Poi è rientrato in Libano, finché nel 1990 il movimento gli ha chiesto di trasferirsi di nuovo in Siria per fondare due comunità di consacrati, una maschile e una femminile, che oggi si trovano ad Aleppo e a Damasco. «Ho vissuto qui in Siria fino al 2008, poi il movimento mi ha inviato di nuovo in Libano, quindi in Algeria. Lo scorso anno mi è stato chiesto di tornare a occuparmi delle comunità siriane e di sostituire un membro del nostro movimento che lasciava Aleppo. Vedere la città dove ero nato distrutta e constatare come era diventata la Siria è stato un grandissimo dolore». Ad Aleppo e Homs i focolarini gestiscono due progetti di doposcuola frequentati da cento bambini ciascuno, e tengono corsi di formazione per insegnanti. Il movimento sostiene anche una scuola per sordomuti ad Aleppo, l’unica in città. «I bambini sono il futuro del dopoguerra – dice Chelhod -. La Siria è un Paese giovane, le strade sono piene di ragazzi. Tanti hanno bisogno di essere sostenuti dal punto di vista psicologico: hanno visto i morti, perso familiari, assistito ai combattimenti. Uno psicologo belga che vive nella nostra comunità ci sta aiutando in questo tentativo di alleviare le ferite profonde».  Robert Chelhod sa bene che rielaborare i traumi di un conflitto è un “lavoro” che non finisce mai. «Da una parte, aver vissuto la guerra mi aiuta a capire un po’ la situazione – confida -. Dall’altro, non appena sbatte una porta io salto sulla sedia, perché da bambino ho vissuto esperienze traumatiche che il mio corpo non riesce a dimenticare. E quando ci sono i bombardamenti rivivo quei momenti». Ad Aleppo operano anche i francescani, che hanno fatto partire un progetto di arte-terapia per 400 bambini proprio con l’obiettivo di aiutarli a rielaborare il loro vissuto. «Ogni venerdì, sabato e domenica, i ragazzi vengono qui nel collegio di Terra Santa dalle 8 alle 14 e partecipano a laboratori di arte, musica, teatro e sport – spiega padre Firas Lutfi, francescano siriano -. Durante i combattimenti non c’erano spazi sicuri per giocare, tanto meno la possibilità per le famiglie di aiutare i figli a sviluppare i propri talenti. Tanti ragazzi, a causa dei traumi vissuti, si sono chiusi in se stessi, e alcuni sono arrivati anche al suicidio. Grazie agli aiuti che ci arrivano tramite l’Associazione Terra Santa abbiamo potuto costruire due campi da calcio e uno da pallavolo, e rimettere in sesto una piscina per i corsi di nuoto. Già cominciamo a raccogliere i primi risultati, insieme alla gioia dei bambini e alla soddisfazione dei genitori». Anche tra i più piccoli, ci sono “gli ultimi degli ultimi”: i francescani hanno attivato un progetto per prendersi cura degli orfani, dei bambini abbandonati e di quelli nati in seguito a stupri e abusi. «Soprattutto in quest’ultimo caso i bambini e le loro madri non ricevono nessun tipo di assistenza – afferma padre Firas -. Anzi, vengono guardati con ostilità perché considerati figli del peccato e non vengono iscritti all’anagrafe. Sono emarginati e bisognosi di tutto, di cibo e acqua, ma anche di un recupero psicologico e di assistenza sociale». Padre Lutfi vorrebbe aprire quattro centri in un anno per duemila di questi bambini. Il programma si chiama “Un nome e un futuro”, per dare una opportunità e un avvenire ai più piccoli e vulnerabili. E per provare ad andare oltre questa maledetta guerra.

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