Padre Romanelli da Gaza: «Si continui a lavorare per una pace vera»

All’indomani dell’accordo per una tregua tra Israele e Hamas, il parroco di Gaza, padre Gabriel Romanelli, testimonia delle condizioni disperate in cui vive la popolazione della Striscia: «Il cessate-il-fuoco non è la soluzione del conflitto, ma è un passo assolutamente necessario»
«Ogni giorno, ogni sera preghiamo per la pace. Quanto abbiamo bisogno di pace!». Fa fatica a connettersi padre Gabriel Romanelli, parroco di Gaza City. Non c’è corrente, non c’è Internet, ma non ci sono neppure beni essenziali come acqua, cibo, medicine, gasolio; anche i pannelli solari sono stati quasi tutti distrutti dai bombardamenti. Quando riesce a comunicare dalla parrocchia della Sacra Famiglia, dove hanno trovato rifugio i pochissimi cristiani della Striscia, il suo primo messaggio è un’invocazione alla pace. «Il cessate-il-fuoco non è la soluzione del conflitto, ma è un passo assolutamente necessario», dice il prete argentino della congregazione del Verbo incarnato, che è rimasto a Gaza insieme al suo confratello padre Yusuf Asad, egiziano, alle suore della sua stessa famiglia religiosa e ad alcune missionarie della carità: «Tutte le persone di buona volontà devono continuare a chiedere che sia fatta pace. Noi vogliamo essere come quelli che il Signore ha benedetto: “Beati gli operatori di pace”. Per questo preghiamo ogni giorno per la conversione degli operatori di guerra, di coloro che stanno facendo veri e propri disastri, qui come in altre parti del mondo. Dobbiamo pregare per la pace, lavorare per la pace, chiedere al Signore, attraverso la Madonna santissima, che ci conceda finalmente la pace».
Del resto, la situazione in tutta la Striscia e in particolare a Gaza City, dove si trova la parrocchia di padre Romanelli, «continua a essere molto, molto, molto brutta!». Gli aggettivi non bastano più a descrivere la devastazione e lo stato di abbandono in cui vivono i sopravvissuti. Macerie su macerie. Non c’è più nulla. Solo desolazione, morte, fame, malattie. Le poche immagini che padre Gabriel riesce a mandare raccontano molto più plasticamente di qualsiasi parola l’indicibile supplizio della gente. «La comunità cristiana soffre quello che soffrono tutti gli altri: i nostri vicini musulmani, i civili, le famiglie del quartiere», continua il missionario, che si è attivato in tutti i modi possibili per rispondere ai bisogni primari dei cristiani, in gran parte greco-ortodossi, che si sono rifugiati in parrocchia e per la popolazione musulmana delle vicinanze: «Attualmente siamo circa cinquecento nel compound della Sacra Famiglia. Abbiamo dovuto trasformare le aule della scuola in stanze per le famiglie, ma cerchiamo comunque di garantire l’insegnamento a bambini e ragazzi affinché non perdano l’anno scolastico». Per loro, vengono organizzate, in particolare dalle suore, anche alcune attività educative e ricreative, una specie di oratorio, per creare un minimo senso di normalità in un contesto dove di normale non c’è più nulla.



«La stanchezza è tanta – commenta padre Romanelli -, ma cerchiamo di andare avanti. Con gli aiuti che faticosamente riceviamo, riusciamo a fare da mangiare due o tre volte alla settimana. E poi ci siamo organizzati con dei piccoli fornelli dove le persone a turno possono cucinare quello che riusciamo ad avere attraverso il patriarcato latino di Gerusalemme, grazie alla generosità del Patriarca Pizzaballa e dello stesso Santo Padre, che ci è sempre molto vicino, e di altre associazioni e amici che ci permettono di aiutare non solo le persone rifugiate qui da noi, ma pure migliaia di abitanti del quartiere».
Tutte le mattine, inoltre, dopo la preghiera, padre Gabriel inizia la giornata facendo visita ai malati. Sono una quarantina quelli che segue regolarmente, alcuni dei quali molto anziani e allettati. Uno necessita della bombola di ossigeno. «Proviamo a stargli vicino e ad aiutarli per quanto possibile, perché qui tutte le infrastrutture sanitarie sono state tutte distrutte». Sono più di diecimila le persone ferite o gravemente malate che aspettano i permessi per poter uscire dalla Striscia di Gaza per essere curate. Tanti sono molto gravi. «Abbiamo molti casi tristissimi», ammette il sacerdote, che però, nonostante la stanchezza, cerca di non perdere il sorriso. «E noi come stiamo? – riflette -. La sofferenza è grande, a dire il vero. Nonostante ciò cerchiamo di resistere e di mantenere viva anche la nostra vita spirituale, perché è il motore più profondo, più alto, che l’essere umano possa avere. Celebriamo la Messa ogni giorno e grazie soprattutto alle suore organizziamo delle attività per i ragazzi, poi la sera ci ritroviamo a pregare. Preghiamo molto e continuiamo a sperare nel Signore. La speranza umana può fallire. Ma la speranza in Dio non fallisce mai. Per questo preghiamo e speriamo, perché si possa diffondersi uno spirito di verità, pace, giustizia e riconciliazione».
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