Tutti i volti di un annuncio

Tutti i volti di un annuncio

Tra i malati psichici o i profughi, nei villaggi come nelle metropoli: le frontiere della missione si rinnovano, per portare ancora Gesù fino ai confini della Terra. Storie nel Mese missionario straordinario

Dal cuore delle metropoli, incubatrici di nuove solitudini, ai contesti rurali più arretrati, fino agli angoli di mondo dove la Buona notizia del Vangelo non è stata mai annunciata. Le frontiere della missione si rinnovano ogni giorno, per rimanere fedeli all’imperativo di sempre: portare Gesù, con il suo messaggio di vita piena, fino agli estremi confini della Terra. Nel Mese missionario straordinario voluto da Papa Francesco facciamo un “viaggio” in realtà di missione che aprono lo sguardo su alcune grandi sfide del presente.

BRASILE, UNA CASA PER GLI ESCLUSI

La sua famiglia sono i malati mentali, i tossici, i diseredati, tutti quelli che, per diverse ragioni, sono rimasti soli, tra le strade di Santana, importante porto fluviale sulla foce del Rio delle Amazzoni, nello Stato brasiliano di Amapá. Le “periferie esistenziali”, tanto care a Papa Francesco, per padre Luigi Brusadelli sono missione quotidiana da più di quarant’anni. «Quando arrivai qui, nel gennaio del 1977, mi imbattei in epilettici tenuti chiusi in gabbia perché ritenuti indemoniati, insieme a disabili, fisici e mentali», racconta il missionario del Pime che fu amico e confidente di Marcello Candia. «Incontrando bambini che per i loro handicap erano messi ai margini, la cosa più naturale mi parve quella di accoglierli con me». Un bimbo dopo l’altro, nacque così la Casa da Hospidalidade, una realtà costituita da diverse piccole comunità familiari in un contesto rurale, a dieci chilometri dalla città, attrezzata per la riabilitazione.

«Occupai un terreno che faceva al caso nostro, e ogni volta che gli ospiti aumentavano mi allargavo un po’. Regolarmente il governatore mi intimava di andarmene, finché un giorno mi disse: “Guardi, visto che ormai si è preso tutta la terra, gliela regalo!”. E mi fornì anche l’elettricità». Evidentemente, l’opera di padre Luigi, che aveva cominciato ad accogliere anche ragazzi e ragazze di strada, era apprezzata dalla comunità. «Viviamo di provvidenza», conferma il missionario. Che, in questi anni, ha creato una scuola rurale per i suoi adolescenti – «ci sono un’officina meccanica, una falegnameria, l’allevamento di maiali e di pesci, corsi di cucito, dattilografia, per elettricisti…» – e ha aperto le porte anche ad adulti marginalizzati. Questi ultimi, malati mentali spesso mandati qui dal giudice in alternativa al carcere, sono quelli con cui padre Luigi divide la sua quotidianità oggi, nella nuova struttura creata in città, sulla sponda del fiume. La scuola agricola, dove studiano al momento 540 alunni, è gestita ora dai Padri Piamartini di Brescia, mentre la struttura per i bimbi disabili è in mano alle Piccole Suore della Divina Provvidenza: «Tante altre congregazioni hanno rifiutato dicendo: “Qui è troppo povero!”», racconta padre Brusadelli. A lui, però, non manca niente. «Io vivo con queste persone, oggi siamo in 57, ed è bellissimo, anche se a volte è complicato e mi trovo in situazioni bizzarre! Ma abbiamo 27 dipendenti, che sono quasi tutti ex bambini accolti, e una gran quantità di volontari, di cui molti in questi anni hanno scelto di consacrarsi». Come mai? «Qui si fa una catechesi quotidiana, della vita. Gesù dice: “Non invitate chi può ricambiarvi, ma chi non può darvi niente”. E questo, senza fare prediche, converte».


CAMBOGIA, LÀ DOVE  GESÙ È SCONOSCIUTO

«Oggi si dice che la missione ad gentes è dappertutto, ed è vero. Però ci sono ancora luoghi dove Gesù non è conosciuto». Parla per esperienza personale padre Gianluca Tavola, missionario del Pime in Cambogia, dal 2010 impegnato nel ministero a Kampot, la provincia più a sud del Paese, al confine con il Vietnam. Un territorio abitato da oltre 700 mila persone dove i cattolici sono appena qualche centinaio, riuniti in cinque piccole comunità.

«Chum Kiri, quella più “antica”, è nata vent’anni fa – spiega -. Ed è interessante il modo in cui è arrivato il seme della fede: a portarlo è stata una donna, Chuo An, convertitasi al cristianesimo nei campi profughi in Thailandia. Una volta tornati a casa lei, il marito e i due figli più grandi erano gli unici battezzati della provincia di Kampot. Hanno continuato a pregare ogni domenica in casa loro. Poi, quando la gente ha cominciato a far domande, si sono fatti conoscere». Così a Chum Kiri oggi c’è una piccola comunità cresciuta intorno a mamma An. «Quando abbiamo costruito la chiesa – continua padre Tavola – nella prima pietra abbiamo messo una preghiera scritta da lei. Perché più della chiesa di mattoni volevamo affidare al Signore la nostra gente».

Ma chi non conosce Gesù, perché si avvicina? «Gli adulti restano colpiti dalla carità – risponde padre Gianluca -. Vedono che ci prendiamo cura degli ammalati, che se un ragazzo deve studiare cerchiamo di aiutarlo. Si interrogano, vogliono capire la ragione di tutto questo e così qualcuno decide di iniziare il cammino del catecumenato. Per i giovani invece conta di più l’aspetto comunitario dello stare insieme, un po’ come l’oratorio. Un luogo sicuro accogliente: anche le nonne buddhiste mandano i nipoti in parrocchia». Non mancano però le difficoltà: «Per chi viene da un contesto buddhista è difficile accettare l’idea di una salvezza donata gratuitamente – commenta il missionario -. L’assioma base del cambogiano è: “Ciascuno si aiuta da solo”. Invece la salvezza donata da Gesù è esattamente il contrario. Però anche per voi in Italia non è così semplice capirlo davvero…».

TOKYO, OLTRE LE LUCI DELLA CITTÀ

«Che cosa vuol dire essere missionario in una metropoli di 20 milioni di abitanti come Tokyo? Per prima cosa io non sono oggettivo: a me la metropoli piace, sono innamorato di questa città bellissima». Nella capitale del Giappone ci vive dal 2009 padre Andrea Lembo, missionario del Pime. La sua vita quotidiana è fatta di treni affollati, spazi anche architettonicamente pieni, una città organizzata in maniera apparentemente perfetta. «Qui fai esperienza della piccolezza dell’essere cristiani perché, se nei crocevia che attraverso dicessi che sono un prete, nessuno capirebbe qual è il mio mestiere. Vivi davvero l’immagine del granello di senape», riflette padre Andrea.

E dov’è allora lo spazio per la missione in un mondo così? «Nel­le domande che incontro nei giovani che frequento – continua il missionario -. “Dove sto andando davvero? Qual è il senso della mia vita?”. Le domande che chiamano in causa la libertà in un contesto dove tutto sembra già definito. Lì c’è lo spazio per la risposta fondamentale: Gesù è il compimento della tua umanità. In questo grande meccanismo che è perfetto, tu non sei un ingranaggio, hai una tua dignità, puoi prendere in mano la tua libertà e viverla. O noi annunciamo questa forza umanizzante del Vangelo o il rischio della missione qui è che tutto si limiti a una celebrazione rituale».

Per questo insieme alla sua comunità padre Lembo ha dato vita al Centro Galilea, un luogo alle porte di Tokyo dove si fa evangelizzazione per attrazione. «Che possiamo donare a questa società? Tre cose – spiega -. Innanzi tutto, ovviamente, l’annuncio del Vangelo, attraverso scuole bibliche, presentazioni della cultura cristiana, incontri sull’arte sacra che comunica bene tutta l’umanità che c’è dietro il messaggio di Gesù. Poi la seconda colonna: la vicinanza alle periferie umane che si nascondono dietro alle luci della città. Infine lo studio della società, come si sta evolvendo dal punto di vista politico, economico, sociale. Perché Centro Galilea? Perché nei Vangeli il Gesù della Galilea è molto più libero rispetto a quello di Gerusalemme: si muove a 360 gradi, incontra tutti, parla in parabole, è meno preoccupato del confronto con le istituzioni. Insomma è un gran bel missionario che vogliamo prendere a modello…».

UNA FAMIGLIA TRA  I PROFUGHI IN TURCHIA

«Per noi la missione significa essere qui, allacciare relazioni con persone che per la società non sono nessuno, farle sentire esseri umani che vivono con altri esseri umani. E, soprattutto, portare la gioia di Cristo a uomini e donne che non lo conoscono, e che spesso hanno l’idea di un Dio che giudica, inflessibile, di cui avere paura». Roberto e Gabriella Ugolini, fidei donum della diocesi di Firenze, la loro missione in terra turca l’hanno scelta tanti anni fa, o forse sarebbe più esatto dire che è la Turchia ad avere “scelto” loro. Ci andarono in vacanza nell’estate del 1986, con la figlia Costanza di dieci anni, e ne furono ammaliati. «Incontrammo varie realtà missionarie, ma anche cittadini locali, e ci rimasero nel cuore». Sarebbero però passati altri quattordici anni, con numerose visite su e giù per la penisola anatolica e un lungo cammino di discernimento sul modo migliore per vivere appieno la propria fede, prima che Roberto, allora informatore farmaceutico, e Gabriella, traduttrice freelance, decidessero di mollare tutto e accogliere l’invito dell’allora vicario dell’Anatolia, monsignor Rug­gero Franceschini, a trasferirsi in Turchia. Meta: l’Est del Paese, prima Ürfa, ai confini con la Siria, poi, per quindici anni, Van, cuore della regione curda a un passo dall’Iran, terra di pastori, contrabbandieri, tanti profughi afghani e iraniani in fuga da violenze e oppressione.

«Il nostro impegno quotidiano è sempre stato molto semplice: all’inizio tramite Costanza, che lavorava con un’organizzazione per i diritti umani, incontravamo persone in cerca di sostegno legale o psicologico e questi contatti diventavano relazioni», raccontano Roberto e Gabriella. «Poi, attraverso un’associazione femminile locale che ci ha concesso uno spazio, abbiamo creato una piccola scuola di lingua turca e inglese per le donne rifugiate iraniane e afghane». Occasionalmente si offre sostegno concreto a chi ha bisogno: medicine, un contributo per l’affitto, canali di vendita per l’artigianato locale…

Il contesto, poi, offre molteplici occasioni di confronto ecumenico, vista la presenza di numerose comunità protestanti, e interreligioso: «È un dialogo della vita, che a volte diventa più puntuale in occasione delle rispettive festività religiose. Capita che qualcuno ci chieda di capire meglio la nostra fede e allora ne parliamo, spieghiamo. Non facciamo proselitismo, siamo presenti».
Da un anno e mezzo i coniugi Ugolini – oggi Costanza si è sposata e vive in Germania – fanno base a Istanbul, dove il loro campo di impegno è ancora quello dei profughi, questa volta principalmente siriani. La formula di missione in famiglia, affermano dopo due decenni di esperienza, è «ricca di opportunità: è immediata, snella nelle strutture, facilita l’incontro. E rappresenta in sé un messaggio che parla a tutti».

MISSIONE SUD-SUD  (E OLTRE)

Dall’Africa (e non solo) al mondo intero. Anche le Chiese più “giovani”, infatti, non sono più solamente Chiese di missione, ma sono diventate esse stesse missionarie. Questo perché molte di loro sono più strutturate e con più personale; ma anche perché vivono sempre di più una dimensione missionaria, in una logica di scambio e cooperazione con le Chiese sorelle di qualsiasi latitudine. Una grande spinta in questo senso è stata data dalle stesse congregazioni missionarie che in questi ultimi decenni hanno subìto al loro interno una metamorfosi che le ha rese sempre più internazionali: oggi missionari africani, asiatici o latinoamericani sono tutt’altro che l’eccezione.

Lo stesso Pime, che si è aperto all’internazionalizzazione solo nel 1989, conta attualmente circa 80 (su 134) missionari non italiani inviati in varie parti del mondo. E, viste le nazionalità degli studenti presenti in seminario, anche il futuro dell’Istituto sarà fatto soprattutto da missionari provenienti da quelle che sono state terre di missione.

In questo senso, un caso emblematico è certamente quello della Repubblica Democratica del Congo, che oggi invia – tra fidei donum e missionari di varie congregazioni – centinaia di sacerdoti in giro per il mondo, Europa inclusa. E i comboniani – che di alcune regioni di questo Paese sono stati gli evangelizzatori – raccolgono i frutti di questo grande lavoro anche attraverso nuovi missionari congolesi che portano il Vangelo in altre parti del pianeta. Joseph Mumbere, che si è innamorato della missione grazie a un grande padre italiano, Franco Laudani, il “profeta dei pigmei”, oggi è il provinciale dei comboniani in R.D. Congo.

«Attualmente – dice – siamo 102 comboniani congolesi, di cui 33 all’estero. Questo mese straordinario sarà un’occasione per noi, come per tutta la Chiesa congolese, per fare memoria di una grande storia missionaria iniziata molti anni fa, ma anche per riflettere sul futuro». La Chiesa cattolica in R.D. Congo è cresciuta moltissimo, ha avuto figure grandi come il cardinale Joseph-Albert Malula che ha fatto un’opera grandiosa di inculturazione (si deve a lui il rito zairese) o come il cardinale Laurent Monsengwo Pasinya che ha avuto un ruolo di primo piano in tutta la storia recente del Paese, compresa l’ultima crisi politica. La Chiesa è un punto di riferimento imprescindibile per milioni di congolesi soprattutto negli ambiti dell’educazione e della sanità, ma è sempre più anche una Chiesa aperta al mondo attraverso i suoi missionari.

«Questo mese straordinario – conferma padre Mumbere – con le molte iniziative messe in campo in tutte le diocesi sarà certamente un tempo prezioso per riflettere sul futuro della missione. Noi, in particolare, ci stiamo interrogando sull’internazionalizzazione delle nostre comunità anche in Europa, per mostrare come persone di Paesi, culture e Chiese diversi possano vivere insieme e dare una testimonianza cristiana».

Giorgio Bernardelli, Anna Pozzi, Chiara Zappa