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La Bibbia e le “briciole”

Da più di trent’anni impegnata nella lettura popolare della Scrittura tra le comunità dell’Amazzonia, Maria Soave Buscemi – laica fidei donum e teologa – racconta quello che ha imparato in cammino tra questi popoli come i discepoli di Emmaus

Ottobre è il mese in cui la Chiesa è chiamata non solo ad aiutare le missioni, ma ancora di più a interrogarsi sul significato più autentico di questo volto della vita cristiana. Per questo pubblichiamo la testimonianza che Maria Soave Buscemi, missionaria laica e biblista, ha proposto al Centro Pime di Milano al convegno «La missione ad gentes di domani», promosso dal Pontificio Istituto Missioni Estere in occasione dei 175 anni dalla sua fondazione. Originaria del Salento, cresciuta nella Milano del cardinale Carlo Maria Martini, Maria Soave Buscemi in Brasile collabora con il Centro Ecumenico di Studi Biblici (Cebi), formando alla lettura popolare della Bibbia molte comunità di diocesi e prelature della Chiesa cattolica e di diverse Chiese sorelle protestanti.

Vengo da São Félix do Araguaia, nel Mato Grosso cuore del Brasile: per raggiungerlo servono tre voli, poi 17 ore di asfalto e, quando va bene, 14 ore di terra battuta. Quando piove spesso, l’autobus si impantana. È la realtà di una comunità sparsa lungo il fiume Araguaia, tra le monocolture che distruggono la terra: granoturco, che non serve per fare la polenta; soia, che non serve per fare il gelato senza lattosio; e canna da zucchero, che non serve per produrre lo zucchero di canna ecologico e solidale. Si tratta di produrre etanolo. Quello che chiamano biocarburante, ma che in realtà è un necrocarburante per la terra e per i figli e le figlie della terra.

Vivo in questo territorio, che è molto vulnerabile: la terra in Amazzonia viene sempre più distrutta e con lei le sue comunità. Al Sinodo per l’Amazzonia, uno dei nostri vescovi, dom Eugenio Cotter, di Pando in Bolivia, ha detto a Papa Francesco: «Santo Padre, le persone delle comunità che servo mi dicono: “Alla domenica cerchiamo di andare alla funzione dell’Assemblea di Dio. Non è la nostra chiesa, noi siamo cattolici. Ma da noi c’è una Messa ogni otto anni…”».

Quando celebriamo l’Eucaristia, facciamo memoria anche di queste comunità che possono avere una Messa ogni otto anni. Che non significa la domenica di Pasqua: può essere qualsiasi domenica. Ecco: il mio servizio è quello di aiutare, di fare in modo che la Bibbia possa essere aperta e queste comunità possano essere incoraggiate, la domenica, nel giorno del Signore, con la liturgia della Parola.

Dormo nella mia stanza, in media, per un mese all’anno, perché siamo noi che dobbiamo camminare, muoverci, far sì che le persone si uniscano per approfondire la vita e la Parola di Dio. In quale orizzonte? Abbiamo dovuto inventare una parola per descriverlo. Lo ha fatto Paulo Freire, grande educatore di adulti. Perché, in spagnolo e portoghese, quando dici esperar (sperare) uno incrocia le braccia e aspetta qualcosa che venga da fuori. E allora abbiamo coniato la parola speranzare, che significa non solo accogliere la speranza, ma costruire, impegnarci, perché la speranza sia una pratica. È il tema di questo Anno Santo che non è solo pellegrini di speranza; ma come diceva Papa Francesco, pellegrinanti in questa speranza, uomini e donne in continuo movimento. Questa è la vita missionaria: sempre in cammino. Col tempo, i nostri passi diventano più lenti, più stanchi, ma continuiamo il nostro pellegrinaggio. In cammino come Gesù coi discepoli di Emmaus, perché missione e teologia si fanno anche con i piedi. E in questi ormai quasi 35 anni in missione ho imparato a farlo con umiltà. In questo Paese ho passato del tempo a imparare una lingua che non conoscevo: il portoghese. Ascoltavo, ascoltavo, fino a tornare a casa col mal di testa… E questo fa Gesù coi discepoli di Emmaus: prima di tutto ascolta.

Sono arrivata in Brasile quando dicevamo che dovevamo essere la voce di chi non ha voce. Nel corso degli anni, però, ho imparato che non è così. Ho capito che chi non ha voce ha il diritto di averla. Anche quando dice cose che non vogliamo sentire.

Ma Gesù non si vergogna quando Cleopa gli risponde male. Quando gli dice: «Solo tu sei così parrocchiano (questo è il termine greco che utilizza Luca nel Vangelo, la parola dispregiativa per indicare chi era senza documenti e senza diritti…) da non sapere che cosa è capitato al Maestro a Gerusalemme?». Ma Gesù insiste nel chiedere: «Perché sei triste?». E usa anche parole dure, «sciocchi e tardi di cuore» prima di iniziare a narrare i testi della Bibbia, e spiegare perché tutte queste cose dovevano accadere. Ma la Bibbia da sola non apre ancora gli occhi. Anch’io, condividendo la Bibbia e la vita, l’ho imparato dalle mie comunità. Per non restare ciechi bisogna arrivare a Emmaus, dire: «Resta qui con noi, Signore». Fare casa, fare chiesa domestica. E Gesù si fa ospitare, non si impone.

La missione per me è stata anche l’esperienza di chiedermi: di chi è il pane? Non solo di chi è il pane di tutti i giorni che condividiamo, ma di chi è il Pane che è Gesù. Di chi è? È solo dei nostri, dei buoni, dei puri? E un altro testo del Vangelo che mi ha illuminato è quello di una madre straniera, di un’altra religione: siro-fenicia o cananea, a seconda delle traduzioni. Parlava un’altra lingua, ma sua figlia non stava bene e allora le madri fanno di tutto per risolvere e va da Gesù. E lui risponde in modo un po’ duro. Dice: «No, sono venuto solo per il nostro popolo, non per la missione ad gentes. Per i nostri, per le dodici tribù, non per i cagnolini».

E allora questa madre gli mostra quello stile missionario che vorrei rimanesse nel cuore di tutti. Dice a Gesù ma soprattutto a me: «Maria Soave, vieni sotto il tavolo, con noi. Con quelli a cui bastano le briciole che, per caso, cadono sotto il tavolo. Non vogliamo il pane, quello bello, quello che sta sulla tavola». La missione ci chiede di andare lì, di leggere la vita a partire da lì: stare sotto l’altare è un luogo teologico fondamentale. Ed è la mia esperienza quotidiana: con chi è escluso, con chi vive di briciole.

In Brasile, ma non solo: ieri ero nella diocesi luterana di Malmoe in Svezia ed eravamo insieme a dieci persone con difficoltà di dipendenza da droghe e da alcol, in situazioni di strada, in depressione (quanto è diffusa nell’estremo Nord d’Europa…).Persone che sono state spesso in silenzio, facevano fatica a condividere. Ma abbiamo passato tutto il giorno insieme e condiviso questo stesso testo. E dovevate vedere come i loro occhi si illuminavano nel sentire che Gesù non ci abbandona, sta sotto il tavolo, sta in strada con noi.

Spezzando e condividendo il Pane gli occhi si aprono. E subito Gesù scompare. E i due discepoli di Emmaus, finalmente di nuovo in piedi, tornano a Gerusalemme, da dove erano scappati, per dire l’unica cosa che conta di tutte le nostre teologie: Gesù è il Signore risorto, la morte non ha mai l’ultima parola. Come non ce l’hanno l’ingiustizia, l’esclusione, la fatica…

Di questo annuncio le comunità che incontriamo hanno bisogno nel corpo, nella condivisione. E allora guardiamo il cielo, dove la Luna sta crescendo verso la Pasqua. Bisogna contare tredici cicli di Lune dall’ultima Pasqua. Tredici come erano in realtà le tribù di Israele, perché Lia a Giacobbe aveva partorito anche una tredicesima figlia, chiamata Dina di cui nessuno sa nulla nonostante la sua storia dolorosissima sia raccontata nella Bibbia (Genesi, 34-38).

Ecco: noi siamo il popolo delle tredici Lune della Pasqua di Gesù: c’è una tredicesima tribù che cammina per le strade dall’Est Europa, per il deserto del Sahara attraversando il Mar Mediterraneo nelle condizioni che conosciamo. Una tribù errante per avere un briciolo di vita. Ed essere missionari significa diventare gli umili profeti e profetesse di questa tredicesima tribù, quella di tutte le persone escluse. È la mia umile testimonianza tra vita e Bibbia in Brasile, perché sia Pasqua per tutti e per tutte.

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