Una scuola per sentirsi a casa
A due anni dal 7 ottobre 2023, i bambini di Gaza sfollati in Egitto sono circa 21 mila: al Cairo il progetto creato da una donna palestinese permette loro di tornare sui banchi per curare i traumi e costruire un futuro. «Qui ritrovano una comunità». Guarda anche la puntata di FINIS TERRAE
«Ricordo Tamim, un bimbo di prima elementare che, all’inizio dello scorso anno scolastico, non riusciva a smettere di piangere disperato, non interagiva con nessuno e a malapena apriva gli occhi: a Gaza aveva perso sotto le bombe tutta la famiglia – genitori e fratelli – ed era arrivato qui in Egitto con la nonna. Si era salvato, ma era incapace di scrollarsi di dosso la tragedia vissuta. Tre mesi dopo, abbiamo ricevuto la visita di alcuni donatori e gli allievi facevano a gara per cantare o recitare una poesia davanti agli ospiti. Allora un piccolino si è avvicinato e ha semplicemente pronunciato il proprio nome. Solo quando ho notato la reazione entusiasta dei suoi compagni ho realizzato che si trattava dello stesso Tamim, che avevo visto in quello stato penoso. Gli ho parlato, lui si è messo in posa per fare dei selfie con me, abbiamo scherzato… È riuscito ad abbozzare solo un piccolo sorriso, ma è stato un traguardo straordinario».
Raccontando questo aneddoto, Maroua Abu Daqqa ancora si commuove. Perché la storia di Tamim è una delle innumerevoli dimostrazioni dell’efficacia del progetto da lei inventato, Pyramids of Hope, che ha permesso a migliaia di piccoli gazawi rifugiatisi in Egitto di tornare sui banchi per affrontare i loro traumi: «Traumi che purtroppo spesso continuano anche dopo la fuga, visto che tanti sfollati hanno ancora parenti nella Striscia. Già una quindicina di allievi hanno perso il padre mentre loro erano qui… la paura è costante».
Anche Maroua è nata e cresciuta a Gaza, ma da quasi vent’anni vive al Cairo insieme al marito egiziano. Da oltreconfine ha assistito al deteriorarsi della situazione dopo il 7 ottobre 2023 e presto ne ha toccato con mano le conseguenze nella sua patria d’adozione: «Negli ultimi due anni il numero di sfollati palestinesi in Egitto non ha smesso di aumentare; si parla di 140 mila persone, anche se non sono disponibili dati ufficiali», racconta la donna, che ha alle spalle tre decenni di esperienza nel campo dell’educazione e dell’istruzione. Proprio per questo, fin da subito la sua attenzione si è concentrata in particolare sulle migliaia di giovanissimi strappati alle loro case. E alle loro scuole: «Secondo il ministero dell’Istruzione dell’Autorità nazionale palestinese di Ramallah, gli studenti tra i 6 e i 18 anni che dall’Egitto si sono registrati per il programma di lezioni a distanza on line sono 21 mila. E probabilmente molti altri non hanno avuto modo di cogliere questa opportunità».
ciali», racconta la donna, che ha alle spalle tre decenni di esperienza nel campo dell’educazione e dell’istruzione. Proprio per questo, fin da subito la sua attenzione si è concentrata in particolare sulle migliaia di giovanissimi strappati alle loro case. E alle loro scuole: «Secondo il ministero dell’Istruzione dell’Autorità nazionale palestinese di Ramallah, gli studenti tra i 6 e i 18 anni che dall’Egitto si sono registrati per il programma di lezioni a distanza on line sono 21 mila. E probabilmente molti altri non hanno avuto modo di cogliere questa opportunità».
Nel Paese, infatti, la situazione di chi è scappato dalle bombe israeliane resta molto precaria. Il governo egiziano spinge per una soluzione alla crisi regionale e nel frattempo evita di regolamentare lo status dei palestinesi sul suo territorio: «Queste persone non rientrano nella categoria dei rifugiati e non sono iscritte negli elenchi delle agenzie governative né di quelle dell’Onu. Arrivano con un visto di 30 o 45 giorni, che alla scadenza non può essere rinnovato: si ritrovano così in un limbo legale e amministrativo. Non possono avere una residenza, né lavorare in modo regolare». Se è vero che le autorità sono consapevoli della situazione e non espellono nessuno, per gli sfollati resta impossibile condurre una vita normale: «Non hanno modo di aprire un conto corrente, o fare domanda di un visto per l’estero, e nemmeno di iscrivere i propri figli a scuola».
Bambini e ragazzi che Abu Daqqa incontrava quando andava a visitare le famiglie dei propri compaesani da poco arrivati al Cairo: «Mi sono resa conto delle ferite interiori che portavano con sé e che nessuno curava. Si dava loro l’opportunità – quando possibile – di iscriversi al programma di istruzione on line per ottenere il certificato di frequenza a scuola, senza però preoccuparsi del loro stato emotivo. È nata da questa constatazione l’idea di offrire a bimbi e adolescenti un supporto psicosociale, usando l’istruzione come strumento per guarire dal trauma». Ha preso forma così, grazie alla collaborazione di insegnanti e formatori loro stessi fuggiti da Gaza, il progetto Pyramids of Hope, letteralmente “Piramidi di speranza”, che ha già offerto a 3.500 studenti lezioni curricolari, attività creative, sport, oltre a diverse forme di assistenza psicologica e opportunità di socializzazione. Racconta Maroua: «Siamo partiti con una scuola estiva, proponendo di occuparci per qualche ora dei ragazzi e permettere così anche alle loro madri di prendersi finalmente cura di se stesse… molte indossavano ancora gli stessi abiti che avevano al momento della fuga! Non ci aspettavamo grandi numeri, invece abbiamo ricevuto 2.400 richieste per 900 posti disponibili».
In quell’occasione la routine delle giornate non era strutturata né si seguiva ancora una metodologia specifica, l’idea era semplicemente «offrire ai bambini l’opportunità di stare insieme e sperimentare qualche attività, ludica e di apprendimento». Eppure, dopo sei settimane, il cambiamento nei giovani allievi era evidente: «Nel corso della festa finale – racconta la direttrice di Pyramids of Hope – in molti hanno preso il microfono e hanno iniziato a parlare di ciò che avevano affrontato durante la guerra e del loro difficile impatto con l’Egitto, fino all’approdo al nostro Centro. Hanno raccontato di come, giorno dopo giorno, avevano cominciato a sentirsi a casa, tanto che c’è stato chi si è messo a condividere i propri progetti per il futuro. Una ragazza ha affermato che si sarebbe impegnata a continuare gli studi perché era ciò che avrebbe desiderato suo padre, morto in un bombardamento. Non ho potuto trattenere le lacrime: erano incredibili i progressi ottenuti in sole sei settimane. In quel momento ho promesso a me stessa che non mi sarei fermata».
La svolta è arrivata grazie all’aiuto di Hassan El-Kalla, noto direttore del consorzio di scuole Futures Educational Systems, che ha messo a disposizione del progetto diversi edifici in città: gli allievi egiziani frequentano le lezioni al mattino, mentre quelli palestinesi possono usufruire delle aule nel pomeriggio, dal sabato al giovedì. «I numeri sono aumentati e abbiamo cominciato a strutturare la metodologia e a selezionare uno staff adeguato». Oggi per Pyramids of Hope lavorano oltre settanta educatori volontari, tutti palestinesi sfollati da Gaza, tra cui quattro psicologi senior che aiutano i ragazzi a gestire le proprie emozioni attraverso sessioni settimanali di attività di gruppo: teatro, musica, sport, disegno. Le opere esposte sui muri delle classi, che ritraggono case bombardate ma anche la bandiera della Palestina, o grandi cuori, o amici che si danno la mano, esprimono il mix interiore di ferite e speranze che spesso le parole non riescono a dire. In ogni polo didattico, poi, c’è uno psicologo che si occupa dei singoli casi di disagio: gli insegnanti segnalano i piccoli che faticano a parlare, o ad apprendere, o che di notte non riescono a prendere sonno.
Maroua, tuttavia, ci tiene a sottolineare che «la prima forma di supporto emotivo è quella che offriamo creando intorno ai ragazzi una comunità. A loro manca molto la dimensione del vicinato, dell’apprendere anche dalla famiglia allargata, dalla strada, dai coetanei. Qui trovano persone – sia studenti sia educatori – che hanno vissuto le stesse esperienze di violenza, perdita e sradicamento. E, insieme a loro, tornano per la prima volta a sperimentare una vita normale». Un’opportunità preziosa anche per i genitori, che assaporano un ritmo quotidiano dopo tanto tempo: «La sera aiutano i figli a preparare la cartella, di giorno li accompagnano e poi li aspettano per la cena insieme. È la routine che avevano perso a causa della guerra». Non sorprende che, nell’anno scolastico appena iniziato, gli allievi del progetto siano passati da 3.500 a circa cinquemila. Nell’attesa di tornare, prima o poi, nella propria terra: «Siamo sicuri che questo momento tragico passerà – dice Maroua -. Nel frattempo ci si prepara: ci si impegna, si impara, si lavora, per essere pronti a costruire il futuro. A ricostruire da capo Gaza».
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