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Perché torno in Giappone

Dopo 12 anni alla guida del Pime come superiore generale, padre Ferruccio Brambillasca si appresta a tornare in Giappone dove era già stato missionario, portando con sé sentimenti di gratitudine, trepidazione e gioia

Lo scorso mese di luglio, si è svolta a Roma l’Assemblea generale del Pime, l’Istituto a cui appartengo e di cui sono stato superiore generale per 12 anni, dal 2013, per 2 mandati. Ogni 6 anni i missionari delegati a partecipare a questa importante Assemblea, sono chiamati fra l’altro ad eleggere il nuovo superiore e i suoi consiglieri. Sapevo con certezza, perché previsto dalle Costituzioni del Pime, che non avrei continuato a svolgere questo servizio per un terzo sessennio e già da un po’ mi stavo preparando mentalmente a ritornare in Giappone, dove ho svolto la mia missione per 15 anni, dal 1998 al 2013. Durante i lavori della nostra Assemblea quindi, eletto il nuovo superiore, gli ho chiesto esplicitamente di poter tornare di nuovo in Giappone e lui mi ha ufficialmente ridestinato in missione, a partire dal prossimo 15 settembre. Poi per avere il permesso di soggiorno, dovrò aspettare in Italia qualche settimana in più, ma il giorno della ripartenza è ormai alle porte.

Attraverso queste righe vorrei condividere con voi i sentimenti che mi accompagnano in questi giorni che mi separano dal rientro in missione. Fra tutti vi è un grande ringraziamento per tutto quanto vissuto in questi 12 anni come superiore del Pime. Non sono sempre stati anni facili: oggi, governare un Istituto, così come una Diocesi o una comunità, è un compito tutt’altro che semplice, alla luce delle molteplici e complesse situazioni che ci troviamo ad affrontare, ma mi sento arricchito per aver visto con i miei occhi molti Paesi del mondo e la Chiesa che in essi è presente e viva, con tante sfaccettature e colori diversi. Incontrare i missionari sparsi nel mondo, ascoltare tante persone che pur spesso in situazioni precarie e di povertà condividono la stessa nostra fede in Cristo, constatare che in diverse parti del pianeta abbiamo ancora una Chiesa viva e con tante vocazioni, tutto ciò è stato per me fonte di entusiasmo, come fare un vero “pellegrinaggio” nel quale ho ricevuto tanto, certamente molto più di quanto abbia potuto cercare di dare!

Mi ha sorpreso una frase che in questi giorni mi ha rivolto cortesemente una religiosa, dicendomi che avrei “perso” gli anni migliori della mia vita per un servizio istituzionale, più che per un servizio missionario diretto sul campo. Certamente, e soprattutto quando si è ancora un po’ giovani, tutti noi missionari vorremmo essere sempre in missione, ma anche questi ruoli gestionali e di guida, questi servizi istituzionali e di coordinamento fanno parte della nostra vocazione, senza di essi e senza la disponibilità a stare un po’ in “seconda linea” e non direttamente sul campo, sarebbe difficile per qualsiasi Istituto poter continuare il servizio nel campo della Chiesa. Ed io non ero certamente l’unico; accanto a me, tanti altri confratelli mi hanno aiutato a lavorare per il bene di tutti i missionari sparsi nel mondo.

Un secondo sentimento che mi accompagna in questi giorni è quello di una sottile trepidazione. Mi domando se, dopo tanti anni, riuscirò a reintegrarmi nella società e nella Chiesa giapponese. In dodici anni, una realtà come quella giapponese, in costante e rapida evoluzione, sarà certamente cambiata, e servirà tempo, pazienza e ascolto per tornare a conoscerla e comprenderla. Anche la Chiesa che ho lasciato dodici anni fa: sarà ancora quella che ricordo, o starà affrontando nuove sfide che mi sono ancora sconosciute?

Sono domande che mi pongo e che probabilmente troveranno risposta solo quando sarò atterrato sul suolo giapponese. Pensandoci bene, poi, erano le stesse domande che mi ponevo appena arrivato in Giappone nel lontano 1998, e sono probabilmente quelle stesse domande che anche gli altri missionari che svolgono la loro attività in Giappone sempre si pongono.

Mi sono tornate alla memoria le parole con cui alcuni anni fa p. Adolfo Nicolas, missionario in Giappone per più di 30 anni e poi eletto Preposito generale dei Gesuiti, esprimeva in questi toni: «C’è molta preoccupazione, lo so, oggi in Giappone, per l’“ingrigirsi” della Chiesa giapponese, il fatto cioè che, dopo cento anni di evangelizzazione, la Chiesa rimanga una piccola minoranza che sta rapidamente invecchiando. Tra l’altro, ho anche avuto modo di ascoltare un giudizio, dai toni quasi disperati, secondo cui l’evangelizzazione ha fallito in Giappone».

Sono parole che suscitano una certa trepidazione, e che ogni missionario impegnato in Giappone credo conosca e consideri. Mi domando, anche però, se queste riflessioni riguardino soltanto la Chiesa giapponese, o se, contengano una verità forse valida anche per quella italiana.

Il Giubileo di quest’anno ci aiuta a non perdere la Speranza. Se riconosco in me una certa trepidazione, sono fermo nella Speranza radicata nella pazienza di aspettare i tempi migliori, nell’umiltà di non vedere né un rapido successo o né risultati immediati, nella Fede che crede nella presenza del Risorto anche nelle società che fanno fatica a credere!

Un ultimo sentimento che porto nel mio cuore, è quello della gioia. «Finalmente torni nella tua seconda patria», mi scriveva qualcuno in questi giorni. Si, è davvero così! Noi missionari abbiamo due patrie: quella dove siamo nati e quella a cui veniamo destinati per sempre.

Partire la prima volta non è come partire la seconda: i sentimenti, probabilmente, cambiano, ma la gioia credo resti la stessa. Alla radice della nostra vocazione missionaria c’è proprio questo: mettersi in cammino verso luoghi dove il Vangelo e la Chiesa non sono ancora conosciuti. È vero, come spesso si sottolinea, che anche l’Italia può essere considerata ‘terra di missione’; e tuttavia, è altrettanto vero che tante realtà in missione (mi viene in mente la Chiesa in Mongolia, che muove solo ora i suoi primi passi) hanno forse un bisogno più urgente di forze, nel senso più ampio del termine, rispetto al contesto italiano o della stessa diocesi di Milano, dove la Chiesa è radicata da sempre.

Parto dunque con gioia, non solo perché rispondo alla vocazione missionaria ricevuta da Dio, ma anche perché sento che il Giappone – dove la Chiesa è davvero una minoranza in ogni senso -, ha ancora bisogno di qualcuno. Di quei ‘servi inutili’ che, con semplicità e discrezione, possano testimoniare l’amore di Dio per ogni uomo, anche per coloro che, pur non conoscendo ancora il Vangelo, lo desiderano nel profondo! La gioia e la felicità di una persona, anche di un missionario, non nascono solo dalla ragione, dagli sforzi fatti, dalle opere svolte o dai ringraziamenti ricevuti, ma sono una “conquista” del cuore, qualcosa che ti nasce dal di dentro, dalla tua interiorità, vera fonte della nostra Gioia.

«Inutile, libero e quindi lieto!», proprio come dice il nostro caro vescovo monsignor Mario Delpini.

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