La nostra storia dentro un souvenir

La nostra storia dentro un souvenir

L’artigianato è una delle ricchezze della Palestina, che il turismo può valorizzare. Parla la fondatrice della prima rete di commercio equo del Medio Oriente

Ci sono i presepi di legno d’olivo intagliati dagli scultori di Betlemme, la ceramica e il vetro soffiato di Hebron, il sapone all’olio di oliva di Nablus, e poi le stoffe ricamate con le tradizionali decorazioni geometriche e i gioielli di madreperla: l’artigianato costituisce senza dubbio una delle ricchezze della Palestina. Valorizzarla, tuttavia, rappresenta spesso una sfida notevole, viste le restrizioni e le difficoltà di spostamento in vaste zone del territorio e le tensioni politiche che periodicamente sfociano in disordini sociali.
«Per questo siamo così sollevati di vedere tornare i pellegrini: per noi è un segno di speranza ma anche un sostegno concreto a centinaia di famiglie che hanno poche altre opportunità di reddito»: a raccontare l’impatto cruciale dei flussi turistici sulle comunità locali in Palestina è Suzan Sahori, che queste dinamiche le conosce da vicino. Per cinque anni addetta alle pubbliche relazioni della Municipalità di Beit Sohour, ha vissuto in prima persona gli effetti della seconda Intifada: «Con la chiusura delle attività, in un distretto in cui il 45% della popolazione dipende dal turismo, la gente non aveva introiti, le famiglie faticavano persino a mangiare», ricorda. È stato alla luce di quell’esperienza che Suzan ha avuto un’idea: creare una rete di artigiani che producessero secondo i criteri del commercio equo e solidale e che, unendosi, potessero trovare sbocchi commerciali non solo localmente, magari in zone diverse della Palestina o al di là del muro di separazione con Israele, ma anche all’estero, grazie al circuito del fair trade. «Un modo per creare sviluppo e insieme far conoscere la nostra cultura al mondo».

Nacque così nel 2009, grazie a un progetto europeo e alla collaborazione con la ong italiana Cospe, l’avventura di Bethlehem Fair Trade Artisans (Bfta), con l’obiettivo di «offrire un lavoro dignitoso, e non carità, soprattutto alle categorie più svantaggiate di produttori, permettendo loro di diventare protagonisti delle loro vite e far crescere le proprie comunità. Cominciammo a organizzare sessioni di formazione per gli artigiani, visitammo realtà del commercio equo e solidale all’estero per apprendere tecniche e strategie, oltre che per presentare i nostri prodotti a nuovi potenziali mercati».

Da allora, decine di associazioni o attività familiari hanno aderito alla ong, che nel 2105 è diventata il primo membro certificato dell’Organizzazione mondiale del commercio equo e solidale in Medio Oriente. «Oggi riuniamo 53 tra laboratori che intagliano il legno di olivo e aziende di ceramiche e vetro soffiato, cinquanta cooperative soprattutto femminili che creano abiti e accessori con tessuti ricamati, prodotti di vetro riciclato, cestini intrecciati e gioielli, e cinque realtà di persone con disabilità che lavorano il feltro e la carta», racconta Sahori, aggiungendo che «se i beneficiari diretti dell’iniziativa sono quasi mille, quelli indiretti ammontano a diverse migliaia».
E questo in tutta la Palestina, da Hebron a Nablus, dal Mar Morto fino a Gaza: «I due gruppi di donne che lavorano con noi nella Striscia, oltre a ricamare danno vita a bellissimi giocattoli con materiali di riciclo. Abbiamo anche fatto partire progetti con le ragazze dei villaggi beduini: grazie al supporto di ong straniere abbiamo fornito loro macchinari moderni con i quali lavorano la lana di pecora per produrre originalissimi presepi».
Proprio i set che, con i materiali più svariati, riproducono la Natività sono naturalmente tra i più amati dai pellegrini, ai quali gli artigiani di Bfta puntano a «far conoscere la cultura e le tradizioni palestinesi». Mostrando loro anche la perizia che sta dietro ai prodotti: per questo è nato il Craft village, un “villaggio dei mestieri” che, nella location della cittadina in cui i pastori ricevettero l’annuncio della nascita di Gesù, permette ai visitatori di osservare gli artigiani al lavoro, dalle donne che producono il pane shrak nel forno tradizionale ai maestri che dipingono la ceramica. Pranzando con cibo locale o imparando qualche passo della folkloristica danza dabkeh, i turisti hanno soprattutto l’occasione di «conoscere la nostra gente e la sua vita quotidiana».

Che è quella di una comunità mista – «tra i nostri associati ci sono indistintamente cristiani e musulmani e questa per noi è la normalità», racconta Suzan, cresciuta in una famiglia cristiana – unita dalla stessa quotidianità, spesso dura. «Mi infastidisce quando gli stranieri mostrano particolare compassione per noi pensando che siamo “perseguitati dai musulmani”… noi siamo tutti palestinesi!», sottolinea.
Un senso di appartenenza a questa terra, Santa e martoriata, che è evidente dalle storie di tanti fedeli. Come quella dell’antica famiglia betlemita degli Hazboun, che ha finanziato la costruzione di una cappella nella rinnovata area per i pellegrini al Campo dei pastori, dedicata proprio, anche nello stile, alla Palestina. Un gesto di devozione ma anche l’ennesimo segno che i cristiani di Terra Santa desiderano aprire le loro porte e condividere le proprie vite con i fedeli di tutto il mondo.