Il chirurgo del cuore

Il chirurgo del cuore

Primario del Centro cardiologico pediatrico del Mediterraneo del Bambino Gesù di Taormina, il dottor Sasha Agati ha curato oltre 4.500 bambini in tutto il mondo e ne ha operati più di 1.800, spesso in luoghi in cui non avrebbero avuto alcuna possibilità di cura

Per tutti è Sasha, come il figlio del dottor Zivago, proprio come voleva sua madre, anche se all’anagrafe è Salvatore Agati. In quel nome c’era pure una vocazione, quella di medico, che è diventata anche una vera e propria missione. Primario del Centro cardiologico pediatrico del Mediterraneo del Bambino Gesù di Taormina – una realtà d’eccellenza internazionale – il dottor Agati ha curato più di 4.500 bambini in tutto il mondo, e ne ha operati più di 1.800, in luoghi in cui spesso non avrebbero avuto alcuna possibilità di ricevere cure e di essere sottoposti a interventi così specialistici e di alto livello. Dalla Tanzania al Mozambico, da Panama al Salvador, dall’India alla Libia, il chirurgo catanese è stato in moltissimi Paesi e contesti dove la cardiochirurgia pediatrica era totalmente inesistente. Ed è stato anche in Israele, dove collabora con l’Associazione “Africa Save the Child’s Heart” a Tel Aviv, che si occupa – tuttora, nonostante la guerra – di bambini palestinesi con problemi cardiaci e di piccoli africani che vengono portati sin lì. Nel 2022, l’Associazione americana Mending Kids International lo ha premiato a Los Angeles per le sue qualità umane e professionali. E in effetti il dottor Agati è un professionista di alto livello e un uomo di grande umanità.

«Tutto è iniziato nel 2007 per curiosità – ci racconta dall’ospedale di Taormina, ma con lo sguardo già rivolto alla prossima missione – dopo aver fatto una prima missione alle Mauritius, dove non esisteva la cardiochirugia pediatrica e non c’è personale medico-sanitario specializzato. Da lì è cambiata un po’ la mia storia. Ho iniziato a interessarmi di altri posti dove i bambini malati di cuore non avevano accesso alle cure, perché non esistevano le strutture adeguate o perché non potevano permetterselo». Solo per fare un esempio, ancora oggi, in Africa, circa il 90% dei bambini cardiopatici non ha alcuna possibilità di curarsi.

Da subito, però, il dottor Agati si rende conto che non bastava andare sul posto e operare. Occorreva innanzitutto creare le condizioni minime per dare continuità a quel lavoro. «Ho cominciato a selezionare posti in cui fosse possibile formare un team locale, che potesse prendersi cura dei bambini tutto l’anno, in modo che la mia presenza e quella del mio staff non fosse una specie di show chirurgico che finiva lì».

L’elenco dei Paesi si è presto allungato: dopo Mauritius sono seguiti Tanzania, El Salvador, Panama, Namibia, India, Mozambico, Etiopia. «Ora siamo pronti a tornare in Libia e ci stiamo preparando per iniziare una nuova missione in Zambia», dice. Non sempre, però, è stato facile trovare le condizioni di base su cui costruire qualcosa che fosse sostenibile e durasse nel tempo, perché spesso i sistemi sanitari di quei Paese sono fragili e poveri in tutti i sensi, sia mezzi che di personale. Non solo, però: la sanità “malata” dei Paesi ricchi – soprattutto dopo la pandemia di Covid-19 – è grandemente bisognosa di personale medico-sanitario, che sempre più spesso recluta proprio nelle nazioni più povere del mondo, sottraendo loro i pochi professionisti competenti. Un vero e proprio “furto di cervelli”, che impoverisce ulteriormente questi Paesi e ne frena drammaticamente le prospettive di sviluppo. «La migrazione a chi fa comodo? – si interroga il chirurgo -. L’Africa, ma non solo, continua a rappresentare un bacino da cui attingere quello che ci serve, comprese le risorse umane. Ci sono troppi squilibri. E questo vale anche per l’Italia, dove i medici vanno nel privato e il pubblico fatica a coprire le emergenze».

Lui, però, in Italia come all’estero, ha sempre fatto la scelta della sanità pubblica. «Ho cercato di intervenire in Paesi in cui non c’era nulla – spiega il medico – e ho sempre lavorato con ospedali pubblici affinché le famiglie dei bambini non dovessero pagare per le cure. Ho cominciato da solo, ma poi sono stato affiancato da tanti colleghi preparati e generosi, che spesso hanno usato le loro ferie per partecipare alle missioni. Soprattutto, però, in questi anni è cresciuto il numero dei professionisti locali che sono in grado di gestire autonomamente le patologie cardiache dei bambini e di intervenire chirurgicamente. Oggi sono loro che, in alcuni casi, garantiscono il supporto ad altri ospedali, in uno spirito di collaborazione e di partenariato Sud-Sud».

Grazie alla collaborazione con l’Associazione americana Mending Kids International, sono state realizzate missioni in Salvador, Panama e Tanzania, «dove non c’era assolutamente niente in termini di cardiochirurgia pediatrica», ed è stata avviata una collaborazione in Libia. «Abbiamo iniziato nel 2020, durante la guerra e con il coprifuoco, all’interno di un progetto dell’Onu, operando 12 bambini a Bengasi. Poi siamo tornati e ne abbiamo operati altri 110 presso il National Heart Center. Abbiamo pubblicato anche un lavoro scientifico su questa esperienza. Lo scorso agosto, il governo di unità nazionale ci ha chiesto di portare avanti un progetto di riattivazione della cardiologia pediatrica a Tripoli, Bengasi, Misurata e Tobruk. A Tripoli abbiamo operato i primi 4 bambini a settembre 2023. Ormai siamo andati in Libia già una decina di volte anche per dare un supporto al personale medico-sanitario che è rimasto nel Paese. Molti professionisti sono partiti prima della guerra e dunque cerchiamo di stare accanto a quelli che sono ancora lì perché possano lavorare in condizioni dignitose. Contiamo di tornarci presto».

Questo supporto ai medici e al personale locale – in Libia come in altri Paesi – avviene ormai anche attraverso un’altra modalità, nata da una situazione di necessità e trasformata in un’opportunità. «Durante la pandemia di Covid-19 – spiega – abbiamo dovuto sospendere molte missioni, ma abbiamo pensato di usare quel tempo per approfondire la formazione. Grazie a Internet abbiamo potuto connetterci con tutto il mondo e realizzare numerosi workshop da cui è nata la Congenital Heart Accademy, una piattaforma online sulla quale abbiamo organizzato 250 eventi sulle cardiopatologie congenite, invitando i maggiori esperti internazionali».

Oggi l’Accademy promuove, oltre alle missioni e alla formazione sulla piattaforma, anche un training di un anno presso l’ospedale di Taormina, completamente gratuito, per giovani medici di tutto il mondo. Attualmente ci sono due cardiologhe armene, una di Haiti e una dalla Libia, ma negli scorsi anni sono arrivati anche medici da Palestina, Tanzania, Etiopia, Mauritius, Mozambico ed El Salvador. «Quando andiamo nei loro Paesi, sappiamo di trovare personale non solo più preparato ma anche più aperto. In queste nazioni ci sono spesso situazioni molto difficili: la sanità, e soprattutto la cardiochirurgia pediatrica, non sono una priorità. Noi vorremmo che i medici che si formano qui portassero con loro anche una cultura diversa della cura, che è un diritto di tutti e di ciascuno, ma significa anche una attenzione alla persona in tutti i suoi aspetti e nella sua dignità».

Un bel esempio viene dalla Tanzania, dove ormai l’équipe locale è totalmente autonoma: «Ne siamo davvero fieri. Anche loro hanno dato tantissimo a noi. Sono persone che combattono quotidianamente contro tanti ostacoli», ammette il dottor Agati: «Abbiamo ricevuto il dono di poter fare un bellissimo mestiere. Ho pensato che fosse importante riuscire a condividerlo e a portarlo specialmente laddove i bambini muoiono per malattie cardiache a volte molto banali».